La memoria storica, componente fondamentale per la formazione civile e sociale di ogni individuo, e presupposto determinante per la costruzione del suo stesso futuro, acquista maggior valore nel momento in cui la carenza culturale di un popolo determina il declassamento della sua migliore identità.

L’Italia di questo inizio di secolo sembra aver perso, in appena un ventennio, la bussola della sua storia: valori liberanti, nati nel Risorgimento e poi rilanciati nella Resistenza, avevano creato nella generazione post-bellica la speranza di far germogliare quei semi di rinnovamento che il sangue e la sofferenza di una grande moltitudine di persone aveva fecondato. In realtà il risveglio di una coscienza civile di stampo europeo, sostenuta da Giuseppe Mazzini e attualizzata dai Padri Costituenti della neo-nata Repubblica Italiana, doveva presto naufragare nel mare magnum della cattiva politica e della corruzione. “Fare” gli Italiani, una volta “fatta” l’Italia è stata, è e sarà sempre impresa molto ardua: l’italiano medio, di cui Pier Paolo Pasolini prevedeva profeticamente, fin dai primi anni sessanta del secolo scorso, la morte civile e morale, non possiede memoria storica! Il recente abbassamento del suo livello di guardia – sotto il quale si anniderebbe il rischio dell’irreversibilità – è un campanello d’allarme che ogni cittadino libero è chiamato a far tacere operando nella società civile, soprattutto in favore delle giovani generazioni, per cercare d’invertire questa tendenza.

In tale prospettiva pedagogica vanno letti i racconti di Mario Pacifici sulle leggi razziali del 1938, raccolti in un piccolo ma ben strutturato libro, edito dalla casa editrice “Opposto”.

Raccontare le tragiche ripercussioni  che una legge dello Stato italiano provocò sul vivere quotidiano di migliaia di cittadini Ebrei ha permesso all’autore di entrare in quella zona d’ombra della coscienza che ogni essere umano ha il dovere d’interrogare, ed è stato abile nel far uscire dai suoi personaggi, al di là dell’appartenenza o meno a un credo religioso, fragilità, ipocrisia, corruzione. In questa prospettiva il lettore dovrebbe fermarsi al termine di ogni racconto, chiudere il libro e porsi una domanda: se in quel lontano ottobre di 74 anni fa ci fossimo trovati, improvvisamente, a fare i conti con una legge discriminatoria e crudele come quella antisemita, quale sarebbe stato il nostro comportamento verso coloro che furono colpiti così duramente e direttamente dal provvedimento ? Quali reazioni e quali sentimenti  sarebbero nati nel fondo della  nostra coscienza? Come avrebbero reagito i nostri compagni di scuola o di lavoro se fossimo stati noi le vittime di tanta scelleratezza?

Oggi la maggioranza degli Italiani ignora o sottovaluta i prodromi delle vicende storiche che hanno portato il regime fascista a emanare, quasi con disinvoltura, le leggi razziali; questa deficienza non sorprende se prendiamo atto del vuoto culturale, subìto o voluto, legato a fatti e misfatti compiuti nei secoli precedenti nei confronti della minoranza di cittadini di religione ebraica. I racconti di Mario Pacifici ci aiutano a cercare nel passato il senso logico di una storia di persecuzioni e violenze dell’uomo sull’uomo, mai completamente abiurate, e comprendere come l’assenza di una giustizia riparatrice per un delitto contro l’umanità abbia prodotto nell’immaginario collettivo l’equivalenza: leggi razziali = cosa da niente. Possiamo solo immaginare quali positive ricadute avrebbe generato, ad esempio nel mondo cattolico, un mea culpa pubblico della Chiesa in cui si fossero condannati apertamente gli “orrori” commessi in diciassette secoli di Regno, evitando di chiamarli “errori di persone che hanno sbagliato”; se pubblico è stato lo scandalo, pubblica sia la riparazione, ci ricorda Pacifici nel racconto Antica osteria Landini, citando la frase pronunciata da Fra Cristoforo ne I promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Complessivamente il libro è la fotografia di un popolo ancora non educato alla libertà e al bene comune, al rispetto delle minoranze e delle diversità. Già nell’introduzione Pacifici ci ricorda il trauma subìto dagli Ebrei italiani quando l’emarginazione razziale divenne Legge: “L’emancipazione che avevano conquistato nel corso del Risorgimento (durante la Repubblica Romana del 1849 si liberò il Ghetto dalle catene dell’infamia e molti Ebrei si arruolarono nella Guardia Civica e contribuirono anche sul piano logistico alla difesa della città, assediata dal corpo di spedizione francese) fu cancellata d’un colpo e per loro si riaprirono idealmente i cancelli di quei ghetti, in cui avevano conosciuto secoli di angustie e umiliazioni”; e come intorno a loro si creò quell’odiosa indifferenza della gente che l’autore riassume in quattro parole: “Ci fu solo silenzio”. Entrando in quelle storie, semplici e scorrevoli, arricchite da un’eccellente forma letteraria e narrate con la sensibilità di un attento osservatore delle dinamiche comportamentali, ci si accorge che l’immoralità, il cinismo, l’egoismo, l’opportunismo e perfino il razzismo sono delle costanti invariate nella stragrande maggioranza degli Italiani, segno di una staticità culturale di cui anche le gerarchie ecclesiastiche d’oltre Tevere sono responsabili. Responsabilità che l’Autore denuncia nel racconto Don Gaetano ove il problema del silenzio della Chiesa cattolica sulle leggi razziali e sulle ricadute del matrimonio misto conferma la prevalenza della sua politica opportunistica a danno della giustizia.

Fortunatamente, allora come oggi, ci sono le eccezioni che confermano la regola e Pacifici vuole metterle in evidenza nel racconto Il Primario, in cui il giovane assistente che viene promosso per effetto delle leggi razziali che hanno costretto il luminare-primario-ebreo a lasciare l’incarico, non festeggia la sua promozione ma difende la sua dignità criticando il regime che l’ha prodotta, e ammonendo: “..Stiamo correndo verso un baratro e nessuno se ne mostra allarmato”. Concetto straordinariamente attuale che in Almeno Lui, penultimo racconto della raccolta, preannuncia la tragedia che sta per compiersi nei campi di sterminio: “Il dramma è che ci stiamo abituando a tutto. Ci hanno a tal punto spogliati della nostra dignità che ormai nulla sembra più farci effetto. Non siamo più nemmeno capaci d’indignarci. Ci abbandoniamo a una torbida rassegnazione e ci lasciamo irretire da un’angoscia senza prospettive”.

L’interrogativo rivolto alle nostre coscienze, ora che conosciamo la gravità delle conseguenze causate dal “Legno Storto dell’Umanità”, per usare l’espressione forte del titolo di un famoso libro di Isaiah Berlin, non riguarda più il passato ma ci coinvolge nel presente: che fare? La risposta la troviamo nel dialogo tra un gruppo di studenti e l’umile e saggio venditore di lupini che Mario Pacifici colloca giustamente all’interno dell’ultimo racconto, Le fusaje, quando ci invita a ristabilire la nostra Libertà primordiale attraverso una Rivoluzione; si, rivoluzione della nostra coscienza: “Se volete cambiare il mondo non potete farlo in silenzio. Dovete parlare. Dovete gridare. E non tanto per chi vi ascolta, quanto per voi. Per prendere coscienza della vostra ribellione”.

E’ questa frase finale che conclude il filo rosso che lega i dodici (numero, credo, non casuale) racconti di questo piccolo capolavoro, la chiave di lettura del messaggio pedagogico che Mario Pacifici vuole rivolgere  a tutti e, in particolare, ai giovani.

Iniziare un percorso di cambiamento, se già non lo abbiamo fatto, è forse la nostra ultima speranza.

 Paolo Macoratti

La presentazione del volume “Una cosa da niente” è avvenuta a Roma il 18 ottobre 2012 presso il Centro Socioculturale della Garbatella in presenza dell’autore,  arricchita dalle testimonianze di coloro che vissero sulla propria pelle le Leggi razziali del 1938.

 

 

 

 

 

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