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              Dopo anni di incontri, trattative, progetti per la creazione a Roma di un Museo dedicato a Giuseppe Garibaldi, comprendente la storia e la rappresentazione popolare e mitica del grande condottiero italiano,  che la nostra Associazione ha tentato di portare a compimento, mediando  tra il desiderio del collezionista e ricercatore storico Leandro Mais di donare al Comune  l’intero materiale in suo possesso - raccolto in 50 anni di acquisizioni e ricerche –  e l’Amministrazione Capitolina (Assessorato alla Crescita Culturale e  Sovrintendenza ai Beni Culturali), dobbiamo purtroppo constatare il fallimento dell’ “ardita” operazione.

             Come accennato nella lettera inviata ai Dirigenti dei citati organi amministrativi di Roma Capitale, che qui riportiamo integralmente,  ci impegneremo ancora nella ricerca di possibili soluzioni con Istituzioni pubbliche od Enti privati interessati ad accogliere, con sufficiente elasticità, le garanzie richieste dal donatore per la conservazione nel tempo dell’intera collezione.

IL TESTO DELLA LETTERA INVIATA IN DATA 02/05/2018

                   All’Assessore alla crescita culturale di Roma Capitale

               Dott. Luca Bergamo

               Piazza Campitelli, 7 – Roma

 

                Al Sovraintendente ai Beni Culturali di Roma Capitale

                Dott. Claudio Parisi Presicce

                Piazza Lovatelli, 35 – Roma

            Egregio Dott. Bergamo, apprendiamo con grande dispiacere la notizia del mancato accordo tra il Comune di Roma – da Lei rappresentato in qualità di Assessore alla Crescita culturale e Vicesindaco, sottoscritto dal Sovrintendente alla Cultura Dott. Claudio Parisi Presicce (lettera del 13 Dicembre 2017, prot. 46315) – e il Signor Leandro Mais, in merito alla donazione dell’intera collezione garibaldina che quest’ultimo aveva proposto all’Amministrazione Capitolina per nostro tramite.

             Dopo aver atteso per quasi tre anni (la prima proposta è del 30 marzo 2015) l’esito di un possibile accordo tra le parti, rinviato prima a causa della caduta della Giunta Marino, poi per il commissariamento del Comune di Roma, vediamo ora svanire il progetto per la realizzazione nella Capitale d’Italia di un “Museo Garibaldi” posto all’interno dell’edificio denominato “Arco dei Quattro Venti” (Villa Pamphili), storicamente legato alla figura dell’Eroe che qui ha combattuto alla testa dei suoi Legionari durante l’assedio di Roma del 1849. Museo unico nel suo genere, che avrebbe completato e arricchito la memoria storica dell’intero periodo risorgimentale (oggi  rappresentato solo per gli anni 1848-’49 all’interno del Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina), e trasmesso alle giovani generazioni un segnale di ripresa culturale, in opposizione al costante declino di valori legati alla nascita della Patria comune, reso ancor più evidente a partire dal 2008 dall’esclusione dello studio del Risorgimento dalla Scuola Primaria.

             A nulla sono valsi i nostri sforzi per facilitare il compito dell’Amministrazione Capitolina attraverso una proposta progettuale che includesse anche la ricerca di sponsor per la ristrutturazione dell’edificio, attualmente fatiscente e pericolante. La decisione, di cui lamentiamo l’assenza di uno spazio di trattativa, seppur minimo, per un possibile compromesso tra le posizioni indicate dal donatore Sig. Leandro Mais e l’Amministrazione da Lei rappresentata, priva il Patrimonio Capitolino, la cittadinanza romana e nazionale di un bene di primaria importanza.

             Consapevoli del valore culturale della raccolta, sia sotto il profilo storico che popolare, ci impegneremo ancora nella ricerca di possibili soluzioni con Istituzioni pubbliche od Enti privati interessati ad accogliere, con sufficiente elasticità, le garanzie richieste dal donatore per la conservazione nel tempo dell’intera collezione.

  A nome e per conto dell’Associazione Garibaldini per l’Italia La saluto cordialmente

Arch. Paolo Macoratti

Presidente

Cari amici, con questo  link  vogliamo ringraziare la nostra socia Annalisa Venditti per aver dato voce, attraverso la trasmissione di Raitre “Chi l’ha visto”, alla notizia del vandalico gesto avvenuto a Roma, all’interno del parco del Gianicolo, che ha danneggiato due busti dei Patrioti della Repubblica Romana del 1849: Melchiorre Cartoni ed Enrico Guastalla .

Ci uniamo all’appello lanciato da Carla Cartoni, pronipote di Melchiorre, per acquisire informazioni a riguardo.

https://www.facebook.com/chilhavisto/videos/10155978426973001/

UN DOCUMENTO ORIGINALE DELLA NOSTRA STORIA AFFIDATO AI FAMOSI CERAMISTI DI GIEN

Collezione Leando Mais – Roma

Riprese fotografiche P.M.

 

L’enorme successo dell’impresa dei Mille ebbe anche un’ampia risonanza nella fantasia popolare. Oltre alle varie opere pittoriche dei vari episodi dell’impresa garibaldina nonché le più svariate riproduzioni dei fatti bellici nei libri d’epoca, si ebbe anche una particolare esecuzione degli stessi episodi in oggetti d’arte popolare  quali: Bicchieri, brocche, bottiglie, piatti ecc.

Un bell’esempio di quest’arte popolare è la serie di 12 piatti eseguiti dalla fabbrica “G G E C” della cittadina francese sulla Loira: GIEN – nota ancora oggi per la produzione di ceramiche artistiche.

Questa serie di 12 pezzi è molto difficile trovarla completa dato che la sua produzione è coeva ai fatti dell’impresa garibaldina. Ogni piatto (Ø mm 200) ha le seguenti caratteristiche: ceramica bianca con disegni ed ornamenti in blu intenso, bordo ricamato (mm 40) con vari soggetti guerreschi, quali: cannoni, spade, pistole, tamburi, trombe ecc. Al centro una scena dell’impresa (Ø mm 120) con la scritta, nella parte superiore,”GARIBALDI” e, in basso,  il titolo della scena  in lingua francese; sotto questo il numero del piatto da 1 a 12. Nel retro è inciso nella ceramica la sigla “B 6” mentre nel tondo, in stampa di colore blu, il marchio della fabbrica:”MEDAILLE  A L’EXPOSITION UNIVERSELLE DE 1855”. Al centro in due righe:”GIEN / GGEC”.

PIATTO n. 1  “DEBARQUEMENT DE GARIBALDI A MARSALA 11 MAGGIO 1860” – Questa scena dello sbarco a Marsala, seppur riprodotto in maniera molto elementare (da notare la mancanza dei due vapori “Piemonte e Lombardo”, raffigura l’episodio della prima tappa dell’eroica spedizione garibaldina

PIATTO n. 2  “COMBAT DE CALATAFIMI” – La scena della battaglia vittoriosa per le armi garibaldine  (15 maggio 1860) è descritta in maniera assai povera in quanto è completamente mancante la presenza dell’esercito napoletano e dei suoi cannoni.

PIATTO n. 3  “L’HEROINE DE CATANE” – Questo episodio di eroismo femminile (Giuseppina Bolognara di Barcellona Pozzo di Gotto, detta Peppa ‘a cannunera’) è in effetti un episodio  di sollevazione popolare contro i napoletani avvenuto a Catania il 31 maggio 1860 e quindi non attinente all’impresa dei Mille.

PIATTO n. 4  “BOMBARDEMENT DE PALERME PAR LA FLOTTE NAPOLITAINE” – Questo episodio, avvenuto a fine maggio 1860, è realizzato in maniera approssimativa ovvero da un’unica nave borbonica che bombarda la città (in effetti era tutta la flotta napoletana che faceva fuoco). Nello sfondo della scena è rappresentato il Monte Pellegrino. La città è stata presa d’assalto dai garibaldini di sorpresa il 27 maggio 1860.

PIATTO n. 5  “ENTREE DU GENERAL GARIBALDI A PALERMO” – La scena riprodotta (Garibaldi a cavallo con bandiera, acclamato dal popolo festante) non corrisponde al titolo ovvero “Entrata di Garibaldi a Palermo, poiché questa ebbe luogo il 27 maggio  con la sorpresa di Ponte dell’Ammiraglio seguita dai furiosi combattimenti entro la città fino alla resa borbonica avvenuta il 6 giugno. Per cui questo episodio dovrebbe essere inserito prima del precedente.

PIATTO n. 6  “COMBAT DE MILAZZO LE VAPEUR TUKERI FAIT FEU SUR LA CAVALERIE NAPOLITAINE” – Questo episodio illustrato in  maniera  non proprio esatta in quanto. La corvetta “Tukeri” (ovvero la ex borbonica “Veloce”) fece fuoco dal mare su Milazzo non  sulla cavalleria napoletana ma sul Forte di Milazzo dove era arroccata la truppa napoletana: La battaglia di Milazzo avvenne nei giorni 20 -21 luglio 1860. Sarebbe stato molto più noto se fosse stato riprodotto l’episodio del 21 luglio che vide l’Eroe  appiedato difendersi a sciabolate contro un nutrito gruppo di cavalleria  napoletana dal quale poté salvarsi per il tempestivo intervento di Missori e Statella.  

PIATTO n. 7  “ENTREVUE DU GENERAL GARIBALDI ET DU GLE NAPOLITAIN LAETIZIA” –  Anche quest’episodio avvenuto il 30 maggio fa parte dei fatti preliminari alla resa e conseguente partenza delle truppe borboniche da Palermo (quindi dopo il piatto 4) . Dopo i cruenti scontri nelle vie di Palermo le truppe borboniche furono  costrette a ritirarsi e l’unica rabbiosa reazione fu quella di bombardare dal mare la città. Ma anche questo inumano espediente si rese inutile; e il Comando nemico, nonostante la superiorità  delle forze disponibili,  decise di venire  a patti col “filibustiere” Garibaldi. Quest’incontro  (che nel piatto è illustrato sulla riva del porto di Palermo) ebbe successivamente  il definitivo accordo delle parti sulla nave Ammiraglia inglese “Hannibal” il cui comandante Mundy si prestò quale neutrale arbitro delle parti. 

PIATTO n. 8  “PRISE DE REGGIO EN CALABRE” – In questa scena è riprodotto lo sbarco via mare di Garibaldi e delle sue truppe a Reggio Calabria, la cui battaglia avvenne il 31 agosto 1860. Fu uno scontro sanguinoso a cui prese parte anche il popolo calabrese. Durante la lotta rimase ferito anche il gen. Nino Bixio

PIATTO n. 9  “ENTREE DU GENERAL GARIBALDI A NAPLES LE 7 7BRE 1860” – La scena di questo piatto  riproduce l’ingresso di Garibaldi a Napoli in carrozza scoperta con accanto il Col. Cosenz e di fronte a lui Fra Pantaleo. Per esattezza  erano presenti anche Nullo e Bertani. Come illustrato nel piatto Garibaldi entrò in Napoli precedendo da solo le sue truppe, acclamato festosamente dal popolo napoletano.

PIATTO n. 10 “COMBAT SUR LES BORDS DU VOLTURNE” –  Questa del Volturno è l’ultima e più aspra battaglia vittoriosa delle armi garibaldine: 1 – 2 ottobre 1860. Questa battaglia, per la sua complessa e difficile posizione ed estensione, fu uno dei capolavori di strategia militare del Gen. Garibaldi e dei suoi eroici volontari. Naturalmente la realizzazione dell’ episodio in questo piatto ci da semplicemente la veduta in primo piano di alcuni garibaldini al fuoco; davanti a loro scorre il fiume Volturno.

PIATTO n. 11 “VICTOR EMMANUEL AU COMBAT D’ISERNIA” –  Questo episodio dedicato al “combattimento d’Isernia” con la presenza del Re Vittorio Emanuele II alla testa dell’esercito piemontese è errato. Infatti la battaglia per La presa di Isernia da parte dell’esercito piemontese  avvenne il 20 ottobre 1860, mentre l’ingresso  di Sua Maestà nella città conquistata avvenne il 22 ottobre 1860. Essendo quest’episodio inerente l’esercito regio, non farebbe parte della tematica  di questa serie di piatti dedicata a Garibaldi.

PIATTO n. 12 “ENTHOUSIASME DES NAPOLITANES A LA VUE DE VICTOR EMMANUEL “Quest’ultimo piatto della serie “Garibaldi” riporta l’episodio dell’ingresso di Vittorio Emanuele II a Napoli (7 novembre 1860) in forma errata. Tutti sanno che il Re entrò in Napoli in carrozza, accompagnato dal Gen. Garibaldi. E’ molto curiosa questa illustrazione del Re piemontese sul cavallo  bianco.

Aggiungo una considerazione in nota critica alla scelta degli episodi riguardanti questa artistica produzione. Considerando la popolarità della celebre Campagna garibaldina del ’60 è da notare la mancanza di famosi episodi. Cito per esempio l’assenza della partenza da Quarto. Nel piatto n. 5, come su detto, sarebbe stato più idoneo illustrare l’ingresso in Palermo sul Ponte dell’Ammiraglio. Del piatto n. 6 ho già accennato alla scena molto più nota che avvenne a Milazzo. Dal piatto n. 7 (incontro di Garibaldi col Gen. Letizia) si arriva direttamente all’episodio della presa di Reggio Calabria  (piatto  n. 8); qui  notiamo almeno la mancanza dell’episodio del passaggio dello stretto o l’arrivo a Melito di Porto Salvo dei due vapori “Washington e Torino”. L’illustrazione del piatto n. 10 poteva raffigurare uno dei più noti episodi della battaglia del Volturno: scontro ai Ponti della Valle. Per quanto riguarda l’illustrazione del piatto n. 11 questo doveva non essere presente ma al suo posto penso che sarebbe stato più giusto mettere il famoso “Incontro di Teano – 26 ottobre 1860”. E’ da tenere presente che questi “errori storici” sono dovuti alla realizzazione dei piatti in tempi quasi coevi all’avvenimento stesso, per cui ne apprezziamo la storicità per il fatto che siano stati realizzati in contemporanea.

Leandro Mais

Ringraziamo il collezionista e ricercatore Leandro Mais per averci dato la possibilità di pubblicare alcune preziose immagini disegnate dal vero degli ultimi combattimenti tra i difensori della Repubblica Romana e l’esercito francese,  prima dell’ ingresso di quest’ultimo nella città eterna..

 

ROMA 3 LUGLIO 1849: ENTRANO I GALLI BOMBARDATORI

          Mentre ancora fumano le rovine delle ville gianicolensi e delle mura Aureliane, dove si è consumata l’ultima sanguinosa pugna fra i difensori Repubblicani di Roma e l’esercito imperiale di Napoleone “il piccolo”, e i cadaveri degli eroici caduti ancora giacciono insepolti, nella via del Corso, al n° 142, il signor Pietro D’Atri (negoziante di stampe di vedute di Roma e dintorni) ha preparato un Album ricordo da vendere ai nuovi padroni vincitori. Con idea molto intelligente e furba ma altamente spregiudicata il signor Pietro prepara (proprio nell’ultimo giorno dell’assedio) per i nuovi vincitori un ricordo dell’assedio costituito da 7 acqueforti inserite alle ultime pagine dell’album suddetto nel cui frontespizio è scritto: “NUOVA RACCOLTA /  DELLE PRINCIPALI VEDUTE /  DI ROMA ANTICA E MODERNA / CON  LE RUINE DELLA GUERRA / DISEGNATE DAL VERO L’ANNO 1849” Roma presso Pietro D’Atri – via del Corso N° 142 (foto 1)

Le sette incisioni dell’assedio misurano mm 160 x H mm 130. Tutte hanno in alto la dicitura in francese: “ROME”, mentre in basso vi è il titolo, il nome dello stampatore  e l’indirizzo sempre in francese (tradotti in italiano). In sequenza:

Foto 2 – Rovine della Porta S. Pancrazio e l’entrata delle truppe francesi a Roma il 1° luglio 1849 (n.b. la data esatta dell’ingresso  dei francese è il 3 luglio)

Foto 3 –  Villa Spada presa dai francesi il 30 giugno 1849  – Disegnata lo stesso giorno sulla linea del combattimento

Foto 4  – Le rovine di S. Pietro in Montorio il 29 giugno 1849 – disegnata dal vero

Foto 5  – Presa della batteria sulla difesa delle mura Aureliane il 30 giugno 1849

Foto 6 –  La difesa di Roma il giorno 3 giugno 1849 a Porta S. Pancrazio – disegnata lo stesso giorno sulla linea del combattimento

Foto 7 –  Presa dell’ultima breccia da parte dei francesi il 29 giugno 1849

Foto 8 –  Decimo assalto dato da parte dei francesi  alla città di Roma durante la notte dal 29 al 30 giugno 1849

   Le sette interessanti incisioni sono state sempre trovate nel mercato antiquario come tavole sciolte , mentre invece si trovano inserite alle ultime pagine di un Album di 51  vedute di Roma e dintorni, come posso affermare essendo venuto in possesso di un esemplare di detto Album proveniente dal mercato antiquario londinese    

                                                                                                   Leandro Mais

 

 

 

 

Giuseppe Garibaldi in 152 lettere e documenti autografi

a cura di Paolo Macoratti e Leandro Mais, prefazione di Mara Minasi; Roma, Garibaldini per l’Italia edizioni, 2016, pp. 312, in 8°, € 25,00.


Il volume, più che un semplice epistolario, è il frutto di una vita di studioso e collezionista di Leandro Mais, unito alla passione di Paolo Macoratti, architetto di professione, impegnato nella divulgazione del mito di Garibaldi come presidente dell’associazione “Garibaldini per l’Italia”.

La raccolta presentata proviene dai due fondi di proprietà di Mais: uno costituito dai pezzi entrati in possesso dello studioso in decenni di ricerca, ed indicato nel testo con la lettera “M”, l’altro è rappresentato dall’archivio Albanese, segnalato con la lettera “A”, recentemente acquistato dallo stesso Mais.

Il volume si apre con due brevi presentazioni dei curatori e una prefazione di Mara Minasi, funzionario direttivo della Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali, seguiti da una breve biografia del medico amico di Garibaldi, Enrico Albanese, e da una sintetica cronologia della vita dell’eroe.

Di particolare interesse è l’impianto dell’opera nel quale la documentazione, costituita fondamentalmente da lettere di Garibaldi ad Albanese e ad altri corrispondenti, è presentata in trascrizione ma affiancata dalle immagini degli originali, permettendo così un contatto diretto con i documenti. I curatori hanno anche precisato quando si trattava di autografi, di singola firma autografa, ed anche della mano di Giovanni Battista Basso, compagno d’armi, amico e segretario del generale.

Il lavoro è presentato in ordine cronologico: la prima lettera è dell’11 novembre 1846, da Montevideo, l’ultima del 20 maggio 1882, a pochi giorni dalla morte. Va detto che la seconda missiva è già del 2 luglio 1855 (da Nizza ad Antonio Origoni) e la terza, da Bologna, è del 29 settembre 1859, alla quale segue un proclama del 22 ottobre; la documentazione prosegue con 5 pezzi del 1860, uno del 1861, 7 del 1862, 15 del 1863, 13 del 1864, 12 del 1865 (di cui due lettere indicate con lo stesso numero “53 A” in quanto nella seconda Garibaldi chiede ad Albanese di bruciare la prima, indirizzata al Re), 13 del 1866, 13 del 1867, 6 del 1868, 8 del 1869, 7 del 1870, 6 del 1871, 2 del 1872, 2 del 1873, 14 del 1874, 12 del 1875, 4 del 1876, 2 del 1877, 3 del 1878, uno del 1879 e uno del 1882, a cui si aggiungono due documenti senza data. Di questi 47 provengono dal fondo Mais e 106 dall’archivio Albanese, incluse le 2 lettere segnalate con un unico numero.

Il volume, oltre alla riproduzione fotografica di tutte le lettere pubblicate, contiene anche un interessante apparato di immagini che presenta personaggi e vicende dell’epopea garibaldina.

L’opera, nel suo insieme, rappresenta un importante contributo alla vita e all’epistolario di Giuseppe Garibaldi, anche per la presenza di molti inediti.

La parte più interessante è sicuramente quella riguardante la corrispondenza con Enrico Albanese, che Garibaldi considerava: “Amico mio di cuore ed intemerato compagno, nella buona e nella cattiva fortuna” (Caprera, 28 dicembre 1868, p. 204). Le lettere mettono bene in evidenza il rapporto affettivo e confidenziale tra i due. Albanese fu un punto di riferimento per i tanti problemi di salute del generale, ma anche l’amico fidato al quale confidare i propri turbamenti, anche politici, al quale rivolgersi per disbrigare diversi affari e per raccomandare reduci ed altri amici. Albanese si occupò anche di far giungere a Caprera, specie in momenti di ristrettezza della famiglia Garibaldi, rifornimenti alimentari, bestiame e oggetti vari; nel 1874 si occupò anche dell’edizione delle Memorie.

Non mancano poi spunti interessanti in molte altre lettere; lo stesso Mais sottolinea, insieme ad altre, quella inviata da Bologna ai siciliani, il 29 settembre 1859, autografa, nella quale già immagina quanto avverrà l’anno seguente: “Dunque la redenzione della Sicilia è la nostra, e noi pugneremo per essa, collo stesso ardore con cui pugnammo su’ campi Lombardi!” (p. 30). Possiamo citare anche quella del 16 febbraio 1863, da Caprera, a Hermann Joseph, presidente del collegio municipale di Lipsia, nella quale ringrazia “della simpatia de’ Germani per la causa dell’Italia e della libertà nell’Italia”. (p. 78), e sottolinea l’importanza della comunione tra i popoli. Per il loro contenuto possiamo anche segnalare, tra le altre, la lettera da Caprera, maggio 1863, alla democrazia spagnola, (p. 86); il proclama ai greci, da Caprera, del 28 ottobre 1866, autografo (p. 166); la nota al comandante Bourras, per l’attacco a Digione, da Barbirey, del 24 novembre 1870, autografa (p. 224). L’elenco potrebbe continuare ma, come scrive Mais a conclusione della sua presentazione: “Lascio al lettore il piacere di scoprire personalmente in tutte le altre lettere quanto di curioso, di particolare offra ognuna di esse” (p. 11).

Romano Ugolini

                                                                                                            

  

      Il 13 giugno 2017 è stata ricordata a Roma, di fronte l’erma di Colomba Antonietti, la storia e la drammatica fine della giovane patriota italiana. Di questa celebrazione si son fatte carico non certo le Istituzioni, latitanti su vari fronti, tra cui, più consistente e colpevole, quello della storia, ma due donne romane, Cinzia Dal Maso e Annalisa Venditti, madre e figlia, promotrici da qualche anno di un percorso culturale di alto valore simbolico (vedi 2016 : https://www.garibaldini.org/?s=colomba+antonietti&search=).

Con la passione e l’amore per tutto ciò che può risvegliare in noi sentimenti sopiti di un passato denso di altissimi valori umani e civili, Cinzia e Annalisa ci hanno riportato indietro di 168 anni, trasmettendo ancora una volta alle nostre coscienze che le  energie materiali e spirituali debbono necessariamente convergere verso ciò che di meglio è stato seminato fino ad oggi, e che ancora ha bisogno di essere valorizzato, per fortificarci e difenderci dagli attacchi di una falsa modernità, che vuole ridurci, come diceva Mazzini, a “macchine calcolatrici”.

Dobbiamo dunque essere grati a Cinzia Dal Maso e Annalisa Venditti e verso  chi, oggi, persegue questo obiettivo con gratuità, senza onori e senza gloria, ma con lo spirito del servizio e del dovere. Grati anche per aver inserito nel programma la voce di uno dei tanti – oggi sconosciuti - personaggi del nostro Risorgimento, Candido Augusto Vecchi, che fu testimone oculare della morte della giovane Colomba; il brano, tratto da La Italia-Storia di due anni 1848 – 1849” è stato letto da Paola Sarcina, direttore artistico del festival internazionale Cerealia. Chi era Candido Augusto Vecchi? Non certo un personaggio di secondo piano: iscritto alla Giovine Italia, conobbe Mazzini a Parigi; partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza e fu eletto deputato alla Costituente Italiana della Repubblica Romana del 1849; fu aiutante di campo di Garibaldi nell’Impresa dei Mille (1860) a Milazzo e al Volturno. Nel 1866 fu promosso Colonnello. Fu deputato del Regno d’Italia dal 1861 al 1865 e ospite di Garibaldi a Caprera negli ultimi anni della sua vita. 

Come lo scorso anno, la rivista telematica di cultura “Specchioromano.it” ha conferito il Premio Colomba Antonietti  a due donne che si siano distinte per il loro impegno  nella diffusione della storia e degli ideali risorgimentali. In questa edizione la targhe sono state consegnate a Mara Minasi, responsabile del Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina di Roma Capitale e del Mausoleo Ossario Gianicolense, e di Maria Antonietta Grima Serra, Presidente dell’Associazione Nazionale Garibaldina. E’ stato inoltre donato alle premiate, come simbolo della femminilità combattente di Colomba Antonietti, un foulard disegnato dalla stilista romana Vanessa Foglia, ideatrice del marchio Abitart, da anni impegnata nel sociale e nella valorizzazione culturale.

La donazione ai presenti del “Pane di Colomba” – realizzato per Cerealia dal panificio Panella, e la deposizione di un mazzo di fiori accompagnata dal “silenzio”, suonato da un bersagliere dell’Esercito Italiano, ha concluso questa breve ma sempre intensa memoria cui hanno partecipato alcuni membri della nostra Associazione.

 

La riforma Moratti del 28 Marzo 2003 n°53, ha stravolto i criteri di prevalenza formativa nello studio della storia! Nell’impedire ai giovanissimi cittadini della Scuola Primaria di conoscere il Risorgimento, questa legge li ha privati  della possibilità di assimilare le basi fondamentali sulle quali è nata l’unità della Patria comune. Accertato che l’applicazione di tale riforma ha avuto, sta avendo e avrà, se non si interviene  per cambiarla, effetti deleteri sulla formazione culturale e civile delle giovani generazioni e sui valori dell’identità nazionale ed europea, che dal Risorgimento, attraverso un percorso lungo e travagliato, è arrivata fino ai nostri giorni, l’Associazione culturale Garibaldini per l’Italia invita a firmare questa petizione per riattivare i programmi scolastici relativi allo studio della Storia e, in particolare, del Risorgimento, precedenti l’applicazione della citata Legge 28 Marzo 2003 n°53 (Riforma Moratti)

In base alla riforma Moratti si stabilisce che il primo ciclo d’istruzione articolato in Primaria e Secondaria di primo grado, preveda lo studio della Storia una sola volta per sei anni, dalla terza elementare alla terza media, secondo la seguente scansione: in Terza elementare si studia la preistoria, in Quarta e Quinta il mondo antico, in Prima Media il Medioevo, in Seconda dalla scoperta dell’America alla fine dell’Ottocento (sic!), in Terza il Novecento. Le motivazioni didattico-pedagogiche a sostegno della riforma sono a dir poco confuse: secondo il legislatore il cambiamento “avrebbe permesso agli insegnanti di prestare maggiore attenzione all’acquisizione delle competenze degli allievi anziché ai contenuti (ritenuti forse nozionistici?) dei programmi”. In realtà, come si possono insegnare strumenti critici – che hanno come scopo l’acquisizione delle competenze – senza aver prima analizzato l’argomento di applicazione degli stessi, ovvero i contenuti? La storia serve per conoscere il passato, comprendere il presente e intuire il futuro, e ha bisogno di essere assimilata e memorizzata lentamente, iniziando dal “gioco” in ambito prescolare (fino a 6 anni), seguendo poi nella scuola Primaria (già scuola elementare) con lo studio dei “fatti” (6 – 10 anni) e proseguendo nella Secondaria di primo grado (già scuola media) con gli “approfondimenti” (11 – 13 anni).

VI INVITIAMO A FIRMARE COLLEGANDOVI AL LINK QUI SOTTO, E DIFFONDERE SUI SOCIAL L’INIZIATIVA
GRAZIE

https://www.change.org/p/ministro-della-pubblica-istruzione-smarrimento-identit%C3%A0-nazionale-il-risorgimento-%C3%A8-scomparso-dalla-scuola-primaria?recruiter=57872434&utm_source=share_petition&utm_medium=facebook&utm_campaign=share_for_starters_page&utm_term=des-lg-google-no_msg

 

I TRADIMENTI STORICI DEL PASSATO RITORNANO FUNESTI NEL DESTINO DELLO STATO PONTIFICIO E DEL SUO CAPO NELLE PREVISIONI DEL FUTURO DEL 1867

 di Leandro Mais

Colgo l’occasione della ricorrenza del 150RIO della Campagna dell’Agro Romano del 1867, per sconfessare quanto apparso nell’articolo su internet per conto di una non meglio identificata società (Forum termometro politico – 3 novembre 2014) che ha festeggiato già da tre anni (!) la vittoria degli zuavi pontifici a Mentana.

Quella Campagna, iniziata con la vittoria sui papalini a Monterotondo il 25 ottobre di quell’anno, doveva concludersi con la sanguinosa sconfitta dei garibaldini nella tragica giornata del 3 novembre successivo, per l’intervento inatteso dell’esercito regolare francese quando ormai il corpo degli zuavi pontifici era stato quasi battuto.

Eppure quell’anno 1867 era iniziato con grandi speranze da parte dei volontari garibaldini, mentre si addensavano previsioni di avvenimenti catastrofici sopra lo Stato Pontificio e il suo capo assoluto: il Papa Re  Pio IX. Queste ultime previsioni negative avevano turbato grandemente Pio IX , poché era venuta a mancare (da parte dell’Imperatore  Napoleone III) la presenza del contingente dell’esercito francese garantita dalla Convenzione del 15 settembre 1864.

A tal proposito mi sembra interessante far conoscere ai lettori questa curiosa e rara medaglia di quell’anno. Si tratta di una piccola medaglia ovale con appiccagnolo, nel cui dritto è raffigurato il busto , di profilo a sinistra,  del Papa Pio IX benedicente , con paramenti papali e triregno, e in basso la scritta :”Roma”. Nel rovescio è rappresentata una scena con molte figure: in alto due uomini che armati di coltello si avventano su una figura caduta in ginocchio che dà loro le spalle. Alla scena assistono, a sinistra, due santi in piedi e, davanti, due sante in ginocchio; sulla destra appare una figura  con lungo mantello, e alla sua sinistra una scure. Il fatto curioso è che le sembianze del volto di questo personaggio sono quelle di …. Garibaldi ! In basso la data :”1867”.

Si può ipotizzare che la scena descritta nel rovescio di questa medaglia voglia riproporre simbolicamente il fatto storico dell’uccisione a tradimento di Giulio Cesare, ovvero il tradimento subito da Papa Pio IX da parte di Napoleone  III (nel ritiro delle truppe) e del Re Vittorio Emanuele II (che aveva garantito i patti della Convenzione) in quell’anno. Naturalmente nella scena è inserita la figura di Garibaldi come  presunto esecutore materiale della fine del Potere Temporale.

  

 

 

 

 

 

 

 

STATO PONTIFICIO PIO IX 1867

D. In cerchio :”PIUS IX -  PONTIFEX  MAXIMUS”. In basso :”ROMA”

R. In cerchio SAINTS ET SAINTES – PRIEZ POUR L’EGLISE” In basso “1867”

Medaglia ovale 1867 opus n. i. mm30 x mm 35 con appiccagnolo

Con l’occasione vorrei ricordare la rara medaglia satirica coniata l’anno dopo la battaglia di Mentana (1868) dai liberali francesi: in essa è raffigurata l’immagine di Napoleone “il piccolo” (come lo definiva Victor Hugo) con un gran cappello napoleonico ed ampi stivali, seduto su una piramide di teschi.

 

 

 

 

 

 

MEDAGLIA SATIRICA ANTINAPOLEONICA PER MENTANA

D. In cerchio :”NOS FUSILS CHASSEPOT ONT FAIT MERVEILLE ° FETICHE HIDEUX, FLEAU DES PEUPLES °”

R. In alto in cerchio :”LIBERTE’ EGALITE’ FRATERNITE’ “ In cerchio in basso :” CHAUVINISME FETICISME CESARISME” Nel campo scritta in cinque righe :”O FRANCE QUI ENFANTAS / JADIS LA LIBERTE’, TU / L’IMMOLES LACHEMENT / AUJORD’ HUI SUR L’AUTEL / DU DESPOTISME” Sotto la data “1868”

Medaglia 1868 opus n. i. O mm 25 AE

BARRETTA 1867

Piccolo rettangolo in AE costituito da due rami di alloro con al centro la data “1867”

Mm 40 x H mm 9

NOTA: Dopo trent’anni (!) della presa di Roma, il R. Governo approvò ed autorizzò (R. D. 24 maggio 1900 n. 98) i volontari garibaldini che avevano partecipato alla “Campagna dell’Agro Romano” del 1867, a fregiarsi della barretta in bronzo con quella data nel nastro della medaglia d’argento delle Campagne per l’unità d’Italia.

Come per le altre Campagne per l’unità d’Italia (48 -49 -59 – 60/61 – 66 – 70) anche per questa fu riconosciuto il combattimento dei volontari italiani, sia contro le truppe dell’esercito imperiale francese che contro quello dei vari reparti mercenari papalini costituiti da svizzeri, irlandesi, belgi ecc.

 Ancora oggi invece l’ Italia non ha onorato né riconosciuto il sacrificio degli eroi di Aspromonte del 1862 solo perché i nemici erano …. I fratelli fratricidi del R. esercito italiano   

      Con questo articolo, corredato da interessanti illustrazioni, scritto dal collezionista e ricercatore storico Leandro Mais, intendiamo mettere in evidenza alcuni documenti che furono determinanti nel processo di unificazione italiana: i Buoni patriottici.  Senza una costante proposta per la raccolta di fondi, e dunque senza una corale partecipazione dei sottoscrittori, non si sarebbero potute finanziare le campagne dei volontari; volontari che necessitavano di tutto, dal vestiario alla  logistica, dal cibo agli armamenti. Ringraziamo Leandro Mais per averci dato l’opportunità di pubblicare in esclusiva questo prezioso materiale.

QUANDO, COME E PERCHE’ NACQUERO I BUONI PATRIOTTICI GARIBALDINI OVVERO “SOTTOSCRIZIONE PER IL MILIONE DI FUCILI”

Di questi buoni patriottici, molto stranamente, se ne è parlato pochissimo da parte degli storici, mentre qualche notizia si è saputa solo da parte di poche persone,  perché attratte dall’intereresse  collezionistico. Ciò è veramente incomprensibile in quanto il loro valore è primariamente quello storico e poi quello commerciale. Infatti se si escludono le notizie che riguardano i due centri “di soccorso a Garibaldi” del 1860, ovvero quello di Bertani a Genova e l’altro di Finzi e Besana a Milano, di tutte le altre Campagne garibaldine (Aspromonte e Mentana) non ne è stata data quasi nessuna notizia. Se poi consideriamo l’assoluta mancanza del motivo della loro realizzazione e scopo, allora ci rendiamo conto che questi storici documenti appartengono veramente ad una storia dimenticata.

Lo scopo per cui furono progettati era quello di raccogliere una somma tale da poter acquistare il necessario per l’attuazione di una Campagna militare (vestiario, armi, cibarie ecc.). Ciò che è meno noto (per quanto riguarda i soli buoni patriottici garibaldini, ovvero sottoscrizione per un milione di fucili, i soli che qui vengono trattati) è la loro iniziale apparizione.

Nella pubblicazione “Pavia e la spedizione dei Mille” – Comune di Pavia – 1960 a cura di Mino Milani, si precisa che la prima sottoscrizione di un milione di fucili, iniziata da Garibaldi con 5 mila franchi a Cremona, è stata versata dal Sig. G.B. Maggi di Pavia il 6 ottobre 1859, per lire italiane  2.46. La denominazione di questi buoni – Sottoscrizione Nazionale per l’acquisto di un milione di fucili –  fu per la prima volta così ideata dallo stesso Garibaldi il 15 settembre 1859 a Bologna (come si legge in “Giuseppe Garibaldi in Romagna” di Marcello e Walter Berti – luglio 1982 pag. 155). Un documento ove già sono citati questi buoni di sottoscrizione patriottica, è la lettera che Garibaldi scrive al patriota Malenchini di Livorno da Fino Mornasco il 27 gennaio 1860 e che viene qui riprodotta nella foto n° 1.

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Prima di trattare la descrizione dei buoni garibaldini vorrei chiarire che le date della loro emissione avvennero negli anni precedenti le Campagne del 1860, 1862, 1867, mentre la realizzazione grafica veniva eseguita in  località diverse, in quanto costituita da differenti illustrazioni. Da tener presente che per notevoli importi la sottoscrizione veniva documentata attraverso una ricevuta che il collettore rilasciava al donatore, regolarmente datata e firmata per l’importo totale.

Un documento di questo genere, che riveste un’importanza storica per il nome del sottoscrittore, è quello datato 25 ottobre 1859, nel quale si attesta il versamento di £ 300 da parte del maestro Giuseppe Verdi (Museo Casa-Verdi Busseto). Alla stessa data il Maestro Verdi anticipò la somma di £ 3.500 per “l’acquisto di cento fucili di fabbricazione inglese” (come riportato a pag. 337/338 del libro “Giuseppe Verdi – un mondo da scoprire”, di Antonino Colli – Tip. Lalitotipo s.r.l. – Settimo Milanese – 1998 – Banca Popolare Milano).

 Per quanto riguarda i sopracitati centri di aiuto a Garibaldi, ovvero il fondo per il “milione di fucili” gestito dai Sigg. Finzi e Besana con sede in Milano (sotto l’influenza monarchico-liberale) e di quello”Soccorso a Garibaldi” (di derivazione mazziniana-garibaldina) diretto in Genova dal Dr. Agostino Bertani, dirò solamente che al primo appartiene un buono da “abusive italiane £ 1″ di colore azzurrino con bollo nero tondo con al centro lo scudo coronato sabaudo (mm 100xH mm 45 – foto n°2); mentre al secondo appartiene un buono costituito da un piccolo cartoncino coll’effige di Garibaldi in camicia rossa nella parte superiore, ed in basso un tricolore con la scritta nella parte centrale bianca: “Soccorso a Garibaldi”, senza riferimento dell’importo; nel retro:”Soccorsi per la Sicilia”, ed a mano il numero e la serie (mm. 24 x H mm. 45 – Foto n°3). 

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Da tener presente che questi buoni, anche se non hanno la dicitura “un milione di fucili” devono considerarsi tali in quanto il denaro raccolto fu inviato a Garibaldi in Sicilia nel 1860. Di questi due importanti centri di sottoscrizione patriottica esiste, di notevole importanza storica, il resoconto della gestione di cassa. Altra emissione sempre a favore del “milione di fucili” è quella emessa dal Centro Romano negli Stati Pontifici (e quindi emessi alla macchia). La serie è di tre importi di Baiocchi 20, 30 e 50, carta bianca – uguale formato – recano tutti due bolli neri: uno ovale piccolo: “C R” (Comitato Romano) più un bollo ovale grande con la figura della lupa allattante i gemelli (mm. 133 x H mm. 130 – foto n°4).

In data 26 gennaio 1860 vengono emessi due valori da:” 1 oncia d’oro”, “1/4 di pezzo forte” stampati in Montevideo con le sottoscrizioni degli Italiani dell’Uruguay. Questi due buoni sono di uguale formato e di uguale disegno (mm.210 x H mm. 160 . foto n° 5); in alto al centro busto di Garibaldi in divisa di Generale sardo-piemontese con i nomi delle vittorie garibaldine:” Roma – Luino – Varese – Como”. Nel retro lunga scritta sui motivi dell’emissione dei suddetti buoni. Questi sono di rarità eccezionale (Vedi articolo su Gazzettino Numismatico – luglio/agosto 1972 – Antonietta Bistoni. “Carta moneta patriottica” – pag. 24/26).

I buoni di sottoscrizione per la Campagna mirante al riscatto di Roma e Venezia, che doveva terminare nello scontro fratricida di Aspromonte del 29 Agosto 1862, furono preparati l’anno prima e se ne conoscono tre tipi differenti. Il primo è il più comune dei tre e ha un valore di cent. 25, stampato in carta bianca con una bella immagine simbolica che raffigura Garibaldi in piedi incoronato dall’Italia, e in basso ai due lati i simboli di Roma e Venezia (la Lupa e il Leone). In alto la scritta  in tre righe: “Italia una e Vittorio Emanuele / Associazione dei Comitati di Provvedimento / Preside Garibaldi” e una stella raggiante. In basso: ” Fondo sacro al riscatto di Roma e Venezia”. Questo artistico disegno è stampato in litografia dalla Ditta Armanino di Genova (mm. 156 x mm 215 – foto n° 6). Il secondo buono, realizzato su cartoncino bianco, molto più raro del precedente, ha il valore di 1 franco. Vi è riprodotto in nero una immagine geografica dell’Italia nella quale spiccano, completamente in nero, il Lazio e  il Veneto. In alto la scritta: “Stella di Garibaldi”; sotto: “Unità – Libertà (mm. 90 H mm. 129 – foto n° 7)

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Il terzo buono si può considerare fino ad oggi sconosciuto poiché ne sono stati rinvenuti solamente 5 esemplari nell’archivio del Dott. Enrico Albanese di Palermo (il garibaldino che per primo soccorse Garibaldi dopo la ferita d’Aspromonte e che fu anche uno dei collettori delle sottoscrizioni a favore di Garibaldi). La particolarità di questi buoni è la realizzazione eseguita a mezzo fotografico che permetteva una più rapida stampa ed anche più economica. Trattasi di foto formato ‘carte de visite’ che riproduce la litografia di Garibaldi e Mazzini entro corona di alloro e quercia, recante in basso due braccia incrociate: una con una penna e l’altra con la spada (simboleggianti il Pensiero e l’Azione). Nel retro a mezzo di tampone con inchiostro nero la scritta in quattro righe: “Soccorso / per / Roma e Venezia / F. 1″ (= franchi 1). Nel retro, in alcuni esemplari, è visibile il marchio di Alessandro Duroni di Milano, oppure Giulio Rossi – Milano ed altri anonimi (mm. 60 x H mm. 100 – foto n° 8).

Se la rarità dei Buoni descritti in precedenza è notevole, quella di cui accennerò ora si può considerare della massima rarità, in quanto unico fino ad oggi. Questo buono è stato realizzato molto semplicemente con caratteri a stampa nera senza alcun motivo ornamentale, e riporta la semplice richiesta di un altro “Milione di fucili” da parte di Garibaldi agli Italiani, nella forma di lettera aperta; la data è: “Caprera 6 Agosto 1863″. Il suddetto buono, proveniente dall’archivio del Dr. Enrico Albanese, reca nella parte inferiore il nome del sottoscrittore, della quota (£1) e della data di sottoscrizione (6 novembre 1864 – mm150 x H mm. 70 – foto n° 9). A proposito di questo buono, è interessante la lettera di Garibaldi al Dr Albanese datata “Caprera 3 Novembre 1863″, con la quale il Generale lo informa di “aver chiesto agli Italiani un altro milione di fucili…” (foto n° 10).

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  Dobbiamo invece arrivare agli ultimi mesi del 1866 per avere notizie della organizzazione dei “Comitati di Provvedimento per la liberazione di Roma” dal dominio papale con sede nella nuova capitale di Firenze. Per questo scopo fu approntata una serie di tre valori: £ 5,25 e £ 100. Quest’ultimo buono fu autografato di mano del Generale dato il notevole importo a garanzia della restituzione stessa della somma. Potrà essere utile ricordare, come notizia storica, che il disegno di questi buoni si deve al pittore garibaldino Eugenio Agneni (combattente nel 1849 – 59 – 66 – 67), che fu anche il collettore, come risulta dal suo autografo apposto in diversi esemplari. Nel retro vi è una lunga scritta riguardante la motivazione di questa emissione (mm. 175 x H mm. 100 – foto n° 11)

A titolo di pura cronaca ricordo agli appassionati che gli esemplari di cui alle foto n° 5 – 8 – 9 sono stati esposti (considerati pezzi unici) insieme ad altri buoni patriottici vari alla mostra di Vicenza il 17/19 Ottobre 2003, e, successivamente, dal 22 Ottobre al 3 Dicembre nel museo del Risorgimento della stessa città. In questa particolare e interessantissima mostra, oltre al materiale di vari collezionisti privati, erano presenti rarissimi esemplari provenienti dalla collezione della Banca d’Italia.

di Anna Maria Isastia (da www.eurit.it)

Giuseppe Garibaldi fu un uomo d’armi, ma anche un uomo di pace. Nella sua vita la pace e la guerra non erano alternative, ma al contrario, si intersecavano continuamente.  Rimase sempre fedele agli ideali cosmopoliti ed umanitari che indirizzarono tutta la sua vita e la sua attività.

Il suo internazionalismo si inserisce in un percorso coerente che ha le sue radici nel pensiero rivoluzionario europeo dell’età della restaurazione, in particolare nel sansimonismo. È sansimoniano anche l’impegno morale di mettersi a servizio del prossimo oppresso. Come dice lo storico Danilo Veneruso in un saggio del 1982: “Garibaldi nasce internazionalista e muore internazionalista passando per l’intero ciclo del principio nazionale”. Di pace e di federalismo in Europa si parla già negli anni quaranta dell’Ottocento e noi sappiamo che Garibaldi è al corrente dei dibattiti politici e culturali della sua epoca.  Dal 1859 al 1881 il sogno di una Europa confederata domina incontrastato nel pensiero di Garibaldi che diede a vari stati: Gran Bretagna, Francia, Svizzera, ma anche Italia, Belgio , Spagna il compito di porsi alla testa di un simile grandioso disegno

Il suo primo intervento a favore di una nuova organizzazione europea è del 1859. Siamo nel mezzo della seconda guerra d’indipendenza. Il regno di Sardegna insieme all’alleato francese ha sconfitto l’imperatore austriaco, tutta l’Italia è in fermento. Garibaldi dopo aver combattuto con i Cacciatori delle Alpi era stato messo a capo delle formazioni volontarie italiane in Romagna. In questo contesto, 30 agosto 1859, aveva scritto ad un amico inglese prospettandogli la sua idea di una confederazione tra Inghilterra Francia Italia Grecia Spagna Portogallo.   Mentre combatteva una guerra nazionale, Garibaldi superava l’ottica solo nazionale per guardare lontano ad un futuro auspicato. L’Italia ha un posto particolare nel suo cuore, ma lo spettacolo di inglesi, francesi, ungheresi che combattono e simpatizzano per il suo impegno a favore dell’indipendenza e dell’unificazione italiana è una realtà che lo colpisce profondamente. Nel 1860, nel pieno della Spedizione dei Mille per la liberazione della Sicilia e del meridione d’Italia dalla dinastia borbonica, Garibaldi si impegna ad interessare i capi di stato europei a mettere fine alle guerre per dedicarsi al benessere dei sudditi. Nel Memorandum alle potenze d’Europa di ottobre 1860 ( scritto nel Palazzo reale di Caserta subito dopo la battaglia sul fiume Volturno) egli chiede che i governi si facciano paladini dell’unificazione politica del continente che deve diventare un unico grande stato federale .   E’ il progetto di una Unione europea capace di riordinare dalle fondamenta i rapporti tra i popoli nel rispetto dei diritti di ognuno.

Memorandum: E’ alla portata di tutte le intelligenze, che l’Europa è ben lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue popolazioni. La Francia, che occupa senza contrasto il primo posto fra le potenze Europee, mantiene sotto le armi seicentomila soldati, una delle prime flotte del mondo, ed una quantità immensa d’impiegati per la sua sicurezza interna. L’Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati ma una flotta superiore e forse un numero maggiore d’impiegati per la sicurezza dei suoi possedimenti lontani.  La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno bisogno pure di assoldare eserciti immensi.  Gli Stati secondari, non foss’altro che per ispirito d’imitazione e per far atto di presenza, sono obbligati di tenersi proporzionalmente sullo stesso piede.  Non parlerò dell’Austria e dell’Impero Ottomano dannati, per il bene degli sventurati popoli che opprimono, a crollare.  Uno può alfine chiedersi: perché questo stato agitato e violento dell’Europa? Tutti parlano di civiltà e di progresso….A me sembra invece che, eccettuandone il lusso, noi non differiamo molto dai tempi primitivi, quando gli uomini si sbranavano fra loro per strapparsi una preda. Noi passiamo la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre che in Europa la grande maggioranza, non solo delle intelligenze, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità, che sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile dell’umanità, di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza.  Per esempio, supponiamo una cosa: Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua? Chi mai si avviserebbe, io ve lo domando, turbare il riposo di questa sovrana del mondo? (…) La base di una Confederazione Europea è naturalmente tracciata dalla Francia e dall’Inghilterra. Che la Francia e l’Inghilterra si stendano francamente, lealmente la mano, e l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, il Belgio, la Svizzera, la Grecia, la Romelia verranno esse pure, e per così dire istintivamente ad aggrapparsi intorno a loro.  Insomma tutte le nazionalità divise ed oppresse; le razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa, non vorranno restare fuori di questa rigenerazione politica alla quale le chiama il genio del secolo.

Dagli avvenimenti militari del 1859 e 1860 Garibaldi trae le premesse della possibilità per l’Europa di un avvenire di libertà e fratellanza da cui bisogna escludere i simboli della conservazione (Papato, Austria, Turchia) Abbattuti questi emblemi, l’Europa poteva strutturarsi dall’Atlantico agli Urali in una confederazione dove l’arbitrato internazionale avrebbe appianato tutte le controversie. Per Garibaldi dunque il passaggio dalla nazione all’Europa non è che la naturale conseguenza delle conquiste della rivoluzione, la forma più moderna della fedeltà alla causa di emancipazione collettiva e individuale che egli ha sempre servito.  Anche in questo caso troviamo una non piccola differenza tra il generale nizzardo e Giuseppe Mazzini. Mazzini è convinto della necessità di liberare prima tutte le nazionalità oppresse per ottenere poi la pace come naturale conseguenza della situazione di fraternità tra stati retti a repubblica. Garibaldi, più concreto e pragmatico, lavora contemporaneamente in tutte le direzioni, forse maggiormente consapevole dei tempi lunghi necessari al raggiungimento di certi obiettivi.

Nel 1862 Garibaldi organizza una nuova spedizione che partendo dal sud della penisola, dovrebbe raggiungere il Lazio per liberare Roma. La spedizione si concluse sulle montagne dell’Aspromonte in Calabria, ma a noi interessa il fatto che il 31 luglio 1862  il proclama di Garibaldi che tenta la liberazione di Roma inizia nel nome dell’Europa.  Ferito e fatto prigioniero, il 28 settembre 1862, dalla fortezza del Varignano, Garibaldi si rivolge alla “libera e generosa Inghilterra perché spinga Francia, Svizzera, Belgio e America a marciare sulla via umanitaria proponendo alla nazione Inglese la convocazione di un congresso mondiale che evitando le guerre possa giudicare dei contrasti insorti tra i vari paesi“. Un anno dopo, a settembre 1863, Garibaldi accetta la nomina a presidente di una Association pour la création de congrès démocratique che ha vita breve.  Nel luglio 1864, tornato dall’entusiasmante viaggio in Inghilterra che testimoniò al mondo intero la popolarità incredibile di cui godeva, Garibaldi ribadì il suo legame con gli ideali pacifisti scrivendo a Edmond Potonié fondatore della Ligue universelle du bien public:  “Votre entreprise est sainte. Les difficultés qui l’entourent augmentent le devoir de tous les amis de la fraternité des peuples de l’encourager de leur parole et de l’aider de tous leurs efforts. Si mon nom peut vous etre utile, il est à vous et à la cause à laquelle nous nous sommes consacrés“.

Nella primavera del 1867 il suo nome si mescolò a quello di tanti altri personaggi che si mobilitarono contro il pericolo di una guerra europea. La stampa dell’epoca diede risalto ai suoi inviti ad imitare gli operai di Parigi e di Berlino che avevano votato mozioni contro la guerra: ”Sappiano una volta i popoli: che volendo concordi, essi possono rovesciare nella polvere per sempre il sacerdozio dell’ignoranza, ed il dispotismo che impedirono sin ora alle razze umane di affratellarsi“. Il 24 maggio aggiunse: “E’ tempo che le Nazioni si intendano senza bisogno di sterminarsi. E’ tempo che il ferro adoperato per terribili apparecchi di distruzione lo sia d’ora innanzi per macchine ed utensili giovevoli al popolo che manca di pane. E’ tempo infine che le classi laboriose e sofferenti di tutti i paesi, per mezzo di un concordato universale, eretto in Costituente, annunzino all’oligarchia disordinata, tumultuosa e battagliera che il tempo è finito!….. Compiamo ciò che essi non hanno giammai voluto: la fratellanza delle nazioni. E che il primo articolo del nostro patto sia: La guerra è impossibile tra fratelli”.

A giugno aderì al congresso di Ginevra, insieme ad altri democratici italiani come Giuseppe Dolfi, Giuseppe Mazzoni e Mauro Macchi. Interessante ricordare che tutti e quattro erano anche massoni. Il Comité central del 1867 volle dargli la presidenza onoraria del congresso. La sua popolarità, le sue dichiarazioni in favore della pace, i suoi stretti legami con tutto l’associazionismo democratico e massonico europeo ne facevano il candidato ideale.  Il comitato organizzatore scrisse: ”Ce nom est à lui seul le plus net des programmes. Il veut dire héroisme et humanité, patriotisme, fraternité des peuples, paix et liberté”. Garibaldi nella primavera estate del 1867 stava preparando la spedizione nell’Agro Romano, con la speranza di poter spazzare via anche l’ultimo residuo di territorio pontificio. Si voleva liberare Roma per farne la capitale d’Italia e concludere il processo di unificazione nazionale, riprendendo il progetto fallito nel 1862.  Ad agosto decise comunque di recarsi a Ginevra, spinto da quanti temevano le conseguenze del suo ultimo progetto militare, ma soprattutto attirato dall’enorme clamore che circondava ormai il programma di questo incontro, anche per la sua presenza. In altre parole, la notizia che Garibaldi avrebbe partecipato al congresso della pace aveva reso estremamente popolare tra i democratici l’iniziativa degli organizzatori.  Garibaldi ritenne anche che dal palcoscenico di Ginevra avrebbe potuto attaccare il papato, fare appello all’appoggio delle coscienze liberali europee nella lotta che egli stava per iniziare contro quella istituzione che egli considerava “nemica di tutti i popoli, causa prima di tutte le guerre, il più potente alleato di tutti i dispotismi“.  Può sembrare un controsenso presiedere un congresso di pace per parlare di guerra, ma lo stretto collegamento con la democrazia portava ad approdi differenti. Come scrisse il democratico Giuseppe Ceneri si trattava di condannare le cause che impediscono il raggiungimento della pace. Non era la pace dell’asservimento ad un potere dispotico quella che reclamavano i democratici europei, ma una pace duratura basata sulla libertà e sulla giustizia.

Garibaldi era sicuro di ottenere il massimo delle adesioni alla sua guerra contro il papa Pio IX che nel 1864 aveva emanato il Sillabo, un documento che in ottanta proposizioni condannava senza appello tutte le conquiste della rivoluzione francese e dell’Ottocento liberale. Il papa aveva detto di no alla libertà di stampa, di riunione e di associazione, al sistema rappresentativo e alla libertà delle coscienze. Bisognava abbattere il potere teocratico del papa, una “institution pestilentielle” per il generale nizzardo.  Agli inizi di settembre Garibaldi lascia Firenze seguito dall’interesse di tutta la stampa europea che si interroga sui motivi di questo viaggio non preannunciato. L’8 settembre arriva a Ginevra accolto in trionfo.  Il 9 settembre nella seduta di apertura dei lavori Garibaldi sottopose al giudizio del congresso una serie di proposizioni, in parte politiche e in parte religiose. Alcune entusiasmarono la platea, mentre altre sollevarono malumori e proteste.

1 – Tutte le nazioni sono sorelle
2 – La guerra fra loro è impossibile
3 – Le eventuali controversie saranno giudicate dal congresso
4 – I membri del congresso saranno nominati dalle società democratiche di ciascun popolo
5 – Ogni nazione avrà il diritto di voto al congresso, quale che sia il numero dei suoi membri
6 – Il papato, come la più perniciosa delle sette, è dichiarato decaduto
7 – La religione di Dio è adottata dal congresso e ciascuno dei suoi membri si impegna di propagarla in tutto il mondo

Era un po’ la sintesi del congresso, ma con un inserto religioso che sconcertò non poco i congressisti. Mentre infatti fu accolta da una vera ovazione la frase “la papauté, comme la plus nuisible des sectes, est déclarée déchue d’entre les institutions humaines”, fu invece poco apprezzata la proposta di Garibaldi di sostituire la religione delle rivelazioni con la religione della verità, della ragione e della scienza. Le proposte fatte da Garibaldi nel 1867 mostravano la maturazione del suo pensiero rispetto a quanto proposto nel 1860 e anticipavano i progetti di organizzazioni internazionali del Novecento.  Tutti i relatori intervenuti al congresso resero omaggio all’eroe e all’uomo. Garibaldi fu presente soltanto alle due prime sessioni di lavoro, ma si assentò proprio nel momento in cui cattolici e bonapartisti cercarono di affondare il congresso e la stampa locale diventava critica. La sua partenza, a congresso ancora aperto, diede motivo ad inquietudini e accuse di fuga. In realtà Garibaldi aveva fretta di tornare a Firenze per completare i preparativi per la spedizione armata nel Lazio.

A Jules Barni lasciò la seguente lettera: Mio caro Barni,  La Confederazione di tutte le libere democrazie che avete proclamato ieri procederà lentamente, ma procederà.  L’organizzazione di un’associazione universale e durevole degli amici della libertà, stabilita in permanenza a Ginevra, sarà un bel risultato per il congresso internazionale della pace.  Terminiamo la nostra missione democratica mondiale proclamando: la Religione universale di Dio, che ai preti Arbués e Torquemada sostituisce il sacerdozio dei Leibniz, dei Galilei, dei Keplero, degli Arago, dei Newton, dei Quinet, dei Rousseau ecc.  Avremo così imboccato il sentiero che ci deve condurre alla fratellanza dei popoli e cementare in modo durevole il patto della pace universale.  G. Garibaldi

Può sembrare singolare il fatto che Garibaldi celebri la pace e provochi la guerra a distanza di pochi giorni, eppure la Spedizione dell’Agro Romano dell’ottobre 1867 si pone ai suoi occhi come la naturale conseguenza della prima. Mentana dunque non si spiega senza Ginevra ed è lo stesso Garibaldi a scriverlo nelle sue <Memorie>. Il generale era andato a Ginevra per ottenere consensi e spiegare la sua guerra all’opinione pubblica democratica. Gli schiavi non avevano il diritto di muovere guerra ai tiranni? Ebbene gli schiavi erano i romani, i tiranni erano il papa e Napoleone III ed era giusto muovere loro guerra in nome della libertà.  Nell’autunno del 1867, durante la spedizione di Garibaldi, l’ormai anziano Carlo Cattaneo parlerà di Stati Uniti d’Europa facendo riferimento agli studenti francesi, tedeschi e spagnoli che si erano uniti alla spedizione.  Nei successivi congressi della Lega, Garibaldi continuò ad esercitare una notevole influenza anche se non partecipò più fisicamente ai lavori, insistendo perché si giungesse alla formulazione degli Stati Uniti d’Europa e all’arbitrato internazionale.  La caduta del Secondo Impero e la fine del potere temporale sembrarono il segno di un destino inarrestabile: sembrava che ci si stesse avvicinando all’Europa dei popoli.  La presenza di Garibaldi in Francia nel 1870-71 a difesa della fragile repubblica in guerra con la Germania apparve il coronamento di una vita spesa ad inseguire il concretizzarsi dei suoi ideali, ma la politica di potenza della Germania e la reazione conservatrice in Francia dimostrarono quanto fosse lontana la possibilità di una Europa unita.  Ma Garibaldi non sembra rinunciare ai suoi ideali. Nel 1872 scrive all’imperatore Guglielmo I invitandolo a non abusare della vittoria e ad organizzare un Congresso internazionale (una sorta di Onu).  In quello stesso 1872 scrive anche a Bismarck suggerendogli l’iniziativa di un Arbitrato mondiale che renda impossibili le guerre tra le Nazioni.
Gli ultimi anni Garibaldi li passa a Caprera affidando alla pagina scritta i suoi pensieri.  Nel suo ultimo romanzo il “Manlio” che descrive una lotta tra il bene e il male troviamo ancora una esaltazione dell’arbitrato internazionale, della fine delle guerre, dell’unione dei popoli visti come tappe sicure del progresso umano. I rapporti di Garibaldi con i responsabili della Ligue International de la paix et de la liberté rimasero ottimi. Nel 1877 il presidente Charles Lemonnier scriveva a Garibaldi per tenerlo informato della attività svolta e dei programmi per il futuro. “Prepariamo per il prossimo anno una grande Assemblea della pace e della libertà che dovrà tenersi a Parigi durante l’Esposizione universale. Speriamo che voi verrete a prendere il posto che vi è dovuto”.

Nel 1881, un anno prima della morte, in una lettera ad un deputato francese suo amico torna a ripetere:  ecco lo scopo che dobbiamo raggiungere; non più barriere, non più frontiere”.
Garibaldi dunque, pur avendo combattuto tutta la vita per il trionfo delle libere nazionalità, è anche un convinto assertore dell’unione dei popoli europei.  Per lui il passaggio dalla nazione all’Europa non è che l’ultimo e necessario atto delle conquiste della rivoluzione, la forma più moderna di fedeltà alla causa di emancipazione collettiva e individuale che egli ha sempre servito

 

PRECISAZIONI  CIRCA IL TELEGRAMMA DELL’”OBBEDISCO

di Leandro Mais

 Su questo famoso autografo garibaldino che il giorno 9 agosto compie 150 anni, pensavo di aver chiarito ogni dubbio con l’articolo “Battaglia della Bezzecca: obbedisco! …..Ma la firma non è di Garibaldi” (15.6.2016 www. Garibaldini. Org.) – Nel sito “cultura garibaldina per l’Italia” (nella quale è possibile leggere l’articolo citato) in data 22 luglio 2016, il Sig. Antonino Zarcone dichiara “L’Ufficio storico custodisce il telegramma con cui Garibaldi conferma obbedisco. Stessa firma, Il telegramma è l’originale

  1. Che l’Ufficio Storico dell’Esercito conservi  il telegramma di ARRIVO A PADOVA con la trascrizione del testo inviato da Bezzecca  dall’anonimo telegrafista del R. Esercito era cosa già nota da tempo
  2. Stessa firma” (???)
  3. Il telegramma è l’originale” -Naturalmente si tratta dell’originale dell’ARRIVO A PADOVA
  4. Era firmato perché si compilava e si consegnava al telegrafista”  - il telegrafista di Bezzecca riceveva il testo autografo (di Garibaldi) e non lo trascriveva ma lo inviava a mezzo telegrafo (in questo caso al Comando Supremo di Padova dove l’anonimo telegrafista lo decifrava e lo trascriveva di suo pugno). Questo è il documento che tutt’ora è conservato all’Ufficio Storico dell’Esercito.

Lo stampato telegrafico sul quale Garibaldi scrisse di suo pugno il testo e la sua firma risulta già dal 1918 di proprietà del Comune di Roma. Infatti ciò si può vedere nel foglio del 9 agosto del libro-calendario giornaliero (365 fogli) stampato dall’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, a cura dell’avvocato Tolla, a beneficio del Comitato Pro Esercito.

Successivamente questo originale  fu esposto nel 1932 alla Mostra garibaldina di Roma nel cinquantenario della morte di Garibaldi (Roma Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale; vedi  catalogo n° 6159) poi trasferito per volere del Capo del Governo alla sala garibaldina che precedeva quelle dedicate al ” X anniversario della Rivoluzione Fascista ” di Roma; da quest’ultima fu trasferito  all’Archivio  Centrale dello Stato di Roma  (E. U. R), ove ancora  oggi è conservato.

Inoltre nel libro “Garibaldi nel cinquantenario della sua morte” – Autori vari – Edizioni di “Camicia Rossa” – Roma 1932 X, sono raccolti diversi articoli riguardanti le gesta militari di Garibaldi. Pubblicato in occasione della Mostra Garibaldina del 50° della morte dell’Eroe, allestita nel mese di giugno in Roma nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale (con centinaia di cimeli) è presente l’articolo “Il genio guerriero di Garibaldi” di Francesco Saverio Grazioli (pag. 10), con la foto del telegramma dell’obbedisco (pag. 17); come si può leggere reca, sotto la didascalia, il Museo dove era conservato, ovvero il “Museo del Campidoglio – Roma”

Un altro chiarimento, sempre su questo storico telegramma, è necessario per quanto riportato dal “Secolo Trentino” del 4.8.2016 (pagina della cultura), presenti le pronipoti di Garibaldi, Anita e Costanza, testimoni della cerimonia a Bezzecca: “….L’archivio di Stato di Torino ha concesso negli scorsi giorni il via libera al prestito del telegramma originale redatto da Giuseppe Garibaldi il 10 (sic) agosto 1866 a Bezzecca….” . Da quanto già detto ed appurato possiamo affermare che quello esposto non è il telegramma originale di Garibaldi bensì il testo manoscritto dal Gen.le  La Marmora copiato dal telegramma d’arrivo a Padova  (conservato nell’Archivio Storico dell’Esercito).

E ancora, dall’articolo del Secolo Trentino: “… nobilitato dalla presenza di Elide Olmeda, pronipote del telegrafista Respicio Olmeda Bilancioni, che a Padova ricevette il telegramma con l’Obbedisco e lo consegnò al Gen.le La Marmora che poi lo diede al Re Vittorio Emanuele II …. ” Questa seconda notizia è stata completamente stravolta nella descrizione del fatto reale. Il garibaldino Respicio Olmeda Bilancioni (vedi foto 5 dell’articolo “Battaglia di Bezzecca : Obbedisco… ma la firma  non è di Garibaldi” - lapide murata sulla casa a San Giovanni di Marignano – Forlì),  il 9 agosto ( e non il 10) inviò da Bezzecca a mezzo telegrafo la risposta di Garibaldi al Comando Supremo di Padova. L’anonimo militare telegrafista lo trascrisse e, a sua volta, da questo ne fece copia il Gen.le La Marmora per portarlo al Re Vittorio Emanuele II. Questo è quello esposto a Bezzecca in questi giorni, prestato dall’Archivio Storico di Torino.

Per cui riassumendo :

1 – L’originale autografo di Garibaldi da Bezzecca è quello che si conserva presso l’Archivio Centrale di Stato di Roma

2 – Il telegramma in arrivo a Padova è quello che si conserva presso l’Archivio Storico dell’Esercito – Roma

3 – Copia autografa del Gen.le La Marmora è quello che si conserva presso l’Archivio di Stato di Torino

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             RITORNA NELLA CASA DI CAPRERA UNA MEDAGLIA-PREMIO CONSEGNATA ALL’AGRICOLTORE GARIBALDI

   

     Il primo giugno 2016 è stata presentata, e il 2 giugno ufficialmente esposta nella casa di Caprera, una medaglia  donata a Giuseppe Garibaldi nell’ambito della Seconda Esposizione Sarda agraria industriale e artistica del 1873.

Dalla ricerca effettuata nell’archivio di Sassari, la Dott.ssa Laura Donati ha trovato un documento nel quale è specificata la motivazione del premio assegnato al grande italiano: al “Solitario di Caprera” fu donata una medaglia di bronzo come riconoscimento per aver portato nell’isola “les pommes de terre”, cioè le patate che lo stesso aveva coltivate in Caprera. Questo toccante ricordo ci riporta alla semplicità di vita e alla grandezza dell’uomo Garibaldi.

     La bella medaglia, che reca inciso nel retro il nome del premiato, é stata donata dal collezionista Leandro Mais di Roma al Museo di Caprera, pensando che fosse più idonea la presenza di questo originale cimelio nella modesta casa dell’Eroe, piuttosto che in quella della sua collezione.

 

Tommaso Montanari   il manifesto 13.4.16

Il testo è tratto da “Io dico no”, edizioni GruppoAbele

Io dico No ai ladri di Sovranità

Da una forma di stato e di governo nata dall’antifascismo a una plasmata sulle richieste della finanza. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia

«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma arbitrio del più forte). Oggi un Governo non legittimato da un voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47 articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il Presidente del Consiglio).

Vorrei mostrare perché questo enorme furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura da anni. «Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio 2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).

Questo cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto delle nostre viteUn mercato a cui non c’è alternativa:There Is No Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.

La genesi ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi “padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta (e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale) sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte prima della Carta costituzionale».

È un testo cruciale per comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art. 9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale». Questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali.

In quegli stessi giorni del giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano l’eco diun importante documento della grande banca d’affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche»….

È impressionante notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale.

A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace». Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».

E la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo, correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce, poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi deboli» rispetto ai Parlamenti.

E, d’altra parte, la verticalizzazione autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager…

È questo il paradossale cuore del progetto: costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014).

È questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra».

 

       

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, dicevano i Romani. E anche quest’anno si ripete l’insidiosa bugia che viene sistematicamente trasmessa alle giovani generazioni e a tutti coloro che, ignorando la storia, per carenza d’informazione o per comodo, continuano ad usare impropriamente la data del 17 marzo 1861 come “anniversario dell’unità d’Italia”. Come sappiamo, i nostri veri maestri del Risorgimento, Garibaldi e Mazzini, non erano presenti a quell’estensione del Regno di Sardegna chiamato Regno d’Italia. All’Italia mancavano, nel 1861, il Lazio (ad esclusione della provincia di Rieti), il Veneto, il Friuli e il Trentino. Di quale unità dunque si parla? Giuseppe Garibaldi, eletto con elezione suppletiva deputato di Napoli il 27 Marzo, era a Caprera; il 30 marzo, di fronte ai delegati di società operaie venuti a Caprera a farli onore, così parlò:” Molti degli individui che compongono il Parlamento non corrispondono degnamente all’aspettativa della Nazione… Vittorio Emanuele è bensì circondato da un’atmosfera corrotta, ma speriamo di rivederlo sulla buona via.. Egli ha fatto molto, ma purtroppo non ha fatto tutto quel bene che poteva fare; può fare di più, e lo farà, per Dio!…” (Fonte: G. Sacerdote – La vita di G. Garibaldi).

Questo Paese ha bisogno di  radici sane, e queste devono essere riconosciute dai semi buoni della storia, quelli autentici e puri. Si deve aver cura di separarli da innesti pericolosi, quando dominati dall’interesse e dalla cupidigia. Per questo occorre affrancare chi ha operato veramente per l’ unità d’Italia (Mazzini e Garibaldi) da chi se ne è servito per ingrandire una dinastia già esistente (Cavour e Vittorio Emanuele II); si eviteranno così dannose paccottiglie, utili soprattutto a rafforzare coloro che speculano sull’ignoranza del Popolo.

Questo era, ed è il nostro pensiero – Il 17 marzo 2011 lo abbiamo condensato in un volantino (che oggi riproponiamo aggiornato)  e consegnato nelle mani dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

VIVA L’ITALIA

di Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi

NOI,

RAGAZZI VOLONTARI DEL RISORGIMENTO,

CHE ABBIAMO SOGNATO UNA REPUBBLICA FONDATA SULLA LIBERTA’, SULLA GIUSTIZIA, SUL PROGRESSO, SULLA SOLIDARIETA’;

 NOI,

CHE ABBIAMO OFFERTO LE NOSTRE GIOVANI VITE PER L’ITALIA UNITA, E PER VOI, CHE OGGI GODETE IL FRUTTO DEL NOSTRO SACRIFICIO

OGGI, 17 MARZO 2016

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MANIFESTIAMO UN SENTIMENTO DI INTENSO DOLORE…

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PER UNA PATRIA E UNA DEMOCRAZIA INCOMPIUTE
 PER UNA SOCIETA’ CHE TRASCURA IL BENE COMUNE PER SETE DI POTERE E DI DENARO
 PER UN POPOLO DISEDUCATO ALLA RESPONSABILITA’, CHE IGNORA  L’OSSERVANZA DEI DOVERI E LA DIFESA DEI DIRITTI
 PER L’AGONIA DELLA SCUOLA PUBBLICA -  UNICA SPERANZA PER LE FUTURE GENERAZIONI

            Quest’anno ricorre il 170° anniversario della prima gloria garibaldina avvenuta nel piccolo villaggio di San Antonio del Salto (Uruguay). Dopo aver difeso la libertà del popolo brasiliano, Garibaldi si reca in Uruguay (1842) dove il Governo di quello Stato lo nomina Colonnello Comandante della “Legione Italiana” (si erano anche costituite altre Legioni straniere, fra cui la francese e la spagnola) che insieme alle altre dovevano aiutare l’esercito uruguayano a liberare dal blocco navale il porto di Montevideo dall’assedio posto dalle navi argentine e suoi alleati. L’esercito argentino tentò, con grande disponibilità di uomini  e di mezzi, di annientare   con un accerchiamento di  sorpresa la piccola Legione Italiana (186 uomini e 8 ufficiali) che  manovrava nella zona di San Antonio del Salto, che si trovava a poca distanza dal Fortino della cittadella del Salto, dove era rimasto il Colonnello Anzani con  l’artiglieria.

Del  cruento ed impari scontro, avvenuto l’8 febbraio 1846, preferisco riportare l’articolo completo tratto dal raro volume: “Vita di  Garibaldi” di Filandro  Colacito, un ex volontario garibaldino, dal titolo:”“ L’onore d’Italia a Montevideo”

            Dieci vascelli accerchiavano tre piccole navi. Siamo nelle acque del Panaro; i dieci sono  del feroce  dittatore Rosas di Buenos Aires, le tre della Repubblica di Montevideo. I primi sono comandati da un Ammiraglio inglese, famoso per altre vittorie, Brown; le altre sono agli ordini di Garibaldi, che le preghiere dei Montevideani han tolto al suo Collegio ed alle matematiche per salvare la vacillante libertà. Da tre dì dura il fulminante delle artiglierie, e ai nostri mancano le munizioni. “Fate a pezzi le catene delle ancore e adoperatele per mitraglia!”, tuona Garibaldi. Brown fa sospendere il fuoco. “Arrendetevi!”, grida col portavoce a Garibaldi. “Prima la morte”, risponde l’eroe. E il fuoco continua più accanito di prima; scende la notte, la terza che non si dormiva. Anche le catene furono sparate contro i nemici. Garibaldi si risovviene di quanto ha fatto alla  Laguna, e pensa si ripeterne i passi. Mette in mare l’una dopo l’altra le lance, v’imbarca i suoi uomini e le fa passare fra i bastimenti nemici. “I feriti per i primi!”, raccomanda a bassa voce. In poche ore tutti sono alla riva; egli ed Anita abbandonano ultimi la nave. Sono appena discesi nella loro lancia che uno scoppio spaventevole echeggia. Le tre navi della Repubblica di Montevideo sono una sola fiamma, ed i nemici mirano con rabbia e umiliazione sfuggirsi  di mano la preda ritenuta sicura. Sulla riva stanno i soldati argentini, e Garibaldi riunisce i suoi e colle baionette e colle tavole (di munizioni non ne aveva più) si slanciano nel folto dei nemici, li sgominano, si aprono un passo e giungono sani e salvi a Montevideo, dove vengono accolti da entusiastiche acclamazioni. “Questi soldati sono pigri”, diceva al generale dei nemici argentini. “Comandati da un leone”, rispose quello. Passano pochi giorni. La flotta di Buenos Aires stringe da vicino Montevideo. Una densa nebbia si stende sulla rada. Garibaldi prende 12 uomini risoluti, si getta con loro in uno schifo, e si reca in mezzo ai nemici per studiarne le forze: una goletta, armata di sei cannoni e di giunchi.  L’acqua poco profonda non permette alla goletta di inseguirlo, ma questa però si pone di traverso al seno per impedirne l’uscita. La notte Garibaldi dice ai suoi: “Tutti in mare e nuotate senza rumore!”. Si accostano , colla sciabola fra i denti alla nave  senza essere veduti: si arrampicano su per i fianchi  della  goletta, balzano improvvisi sulla tolda e uccidono le guardie. La ciurma  si sveglia  spaventata; Garibaldi le impone di gettar l’arme e darsi prigioniera. In pochi istanti la nave è conquistata  e tosto Garibaldi fissa la bandiera repubblicana, appunta i cannoni  agli altri vascelli nemici e li fulmina di fianco: poscia levate le ancore, conduce a Montevideo la nave con tanto ardimento conquistata. “Garibaldi è fatato!” (dicevano i popolani d’America, come più tardi quelli d’Italia). Nessuna arme può toccarlo, egli scaccia colla mano le palle, come altri fa colle mosche.

             A Montevideo v’era una legione francese che aiutava valorosamente la Repubblica. Molti dicevano: “Garibaldi è prode, ma gli altri italiani sono poltroni, e temono di scottarsi al fuoco delle battaglie. Per questo sono schiavi nella loro patria!”. L’accusa giunge all’orecchio di Garibaldi. Tosto va a bussare di casa in casa di quanti italiani v’erano in Montevideo. Ed in pochi giorni riunisce una legione ardente di cimentarsi in Battaglia. Due cose diceva ai suoi soldati:”noi dobbiamo mostrare che gli italiani  sanno battersi e che fanno volentieri sacrificio della vita per la causa della libertà”. Alla legione, forte di quasi mille uomini, diede una bandiera. Era di seta nera col Vesuvio dipinto nel mezzo, emblema dell’Italia  e delle rivoluzioni che ruggivano come lava ardente nel suo seno. Fu affidata al giovinetto Sacchi, oggi generale italiano, che in questi dì ricordò in Roma, piangendo l’antico Duce, l’insegna gloriosa. Il colonnello Anzani di Alzate era l’amministratore della legione. Con questi soldati sollevò con molte vittorie ad alto onore il nome italiano in quelle contrade e specialmente coi tre fatti di Cerro, delle Tres Crues e de la Bajada. In alcuni combattimenti alcuni negri che si dimostrarono molto valorosi s’erano affezionati a Garibaldi: uno di questi, il moro Aguyar, lo seguì anche in Italia.

            Il fatto più luminoso compiuto dagli italiani, fu quello di S. Antonio del Salto. A Garibaldi era stato dato l’incarico con 184 fanti e 20 cavalieri, di trattenere  il nemico composto di 1500 soldati, al fine di dar tempo ai Montevideani di fare una ritirata. “Siamo uno contro sette!”, grida Garibaldi ai suoi; “tanto meglio! Quanti meno siamo, tanto maggiore sarà la gloria! risparmiate la polvere sparate solo a bruciapelo!”. Vicino sorgeva una “tapera”, vale a dire una casupola fatta con quattro pali ed una stuoia: colà si aggrupparono i nostri. 300 nemici s’avanzarono a corsa: quando son vicini li accoglie una scarica di fucile e tosto un assalto alla bajonetta. La fanteria è sgominata. S’avanza la cavalleria: trova un muro di baionette. Scendono i nemici da cavallo e combattono a piedi; ma i nostri non cedono un palmo di terreno. Intorno ad essi vi  erano mucchi di morti e di feriti: servivano di trincea. Tra  una scarica e l’altra, i nostri cantano inni patriottici d’Italia. I nemici meravigliati non comprendono nulla. “Mancano le munizioni!”, grida un legionario con accento di terrore. “Ne hanno i morti!”, risponde Garibaldi. E mentre gli uni rispondono ai colpi nemici, gli altri frugano i caduti e fan raccolta di cartucce. Erano combattimenti, duelli eroici, degni d’essere cantati dall’Ariosto. Dal mezzo dì dell’8 febbraio 1846 a mezzanotte si combatté con ardore. Da una parte e dall’altra si bruciava di sete. Dei nostri, cento soli erano in piedi, anche questi quasi tutti feriti e contusi: i nemici morti e feriti erano 500. Infine stanchi, disperati, umiliati, gli argentini dovettero dichiararsi vinti e Garibaldi con tutti i suoi feriti entrava in  S. Antonio fra le acclamazioni del popolo meravigliato. Il governo  della Repubblica, all’annunzio del fatto strepitoso, promosse Garibaldi da Colonnello a Generale, gli affidò  il comando di Montevideo, decretò  che la legione italiana avrebbe avuto il posto d’onore in tutte le parate dell’esercito, e sulla bandiera fu scritto in oro: - GESTA DELL’8 FEBBRAIO 1846 DELLA LEGIONE ITALIANA AGLI ORDINI DI GARIBALDI -

            Sempre da questo libro riporto questa rarità fotografica con tre superstiti della battaglia ( foto 1). Faccio presente (perché non riportato nell’articolo suddetto) che per l’eroico comportamento della Legione Italiana e del suo Comandante, il Governo uruguayano decretò e concesse  a tutti i militi uno scudetto d’argento da portare al braccio sinistro con la scritta: “Envencibles combatieron  el 8 f.ro de 1846(foto 2) . Inoltre a tutti  i militi fu concessa anche una medaglia  in bronzo (foto 3-4) ed agli ufficiali una di uguale disegno ma in argento. Per tutti coloro che volessero approfondire notizie su questo glorioso episodio consiglio di leggere il libro di Ivan Boris: “Gli anni di Garibaldi in Sud America -  1836-1848” ( Ed. Longanesi – Milano 1970). A pagina 225 è riportata la fotografia (molto ingrandita), dello scudetto suddetto, nella cui didascalia non è citato il luogo dove è conservato. Un esemplare di questo rarissimo scudetto è stato recentemente trovato. Ne dò la riproduzione fotografica nella foto N° 5. Per gli amici filatelici riporto nella foto n° 6, la riproduzione dell’annullo figurato che l’Uruguay ha realizzato a ricordo del 150°anniversario del glorioso Fatto  d’armi.

 Leandro Mais

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     Nel presentare questo documento invitiamo il lettore a riflettere su un argomento di grande attualità: l’accoglienza dello straniero in terra italiana. L’asilo ai rifugiati e l’accoglienza agli immigrati è stato sempre un tema difficile da gestire, sia da parte delle autorità competenti, sia da parte della popolazione residente. Oggi, in Italia, al tentativo di dare una giusta soluzione al problema si contrappone l’azione di alcune forze politiche che, facendo leva sui pericoli della sicurezza personale, o su presunte privazioni dei posti di lavoro, impedisce di realizzare pienamente quell’aiuto solidale che caratterizza coloro che credono nel rispetto della dignità della persona e, più in generale, nel progresso umano.

I contenuti dell’azione garibaldina guidata dall’Eroe dei due mondi, a partire dai suoi esordi e ancor oggi presenti in una ristretta nicchia culturale, non si erano limitati esclusivamente alla realizzazione dell’unità d’Italia,  ma avevano contribuito a formare un’identità “altra” del popolo italiano, fondata su saldi principi di solidarietà sociale e umana. Ne sono testimonianza le Società di Mutuo Soccorso nate in tutto il territorio nazionale e il comportamento civile dei reduci garibaldini che ne diedero prova tornando alle loro case dopo strenue e durissime campagne di guerra. Ma ne è testimonianza diretta il – Comitato di lavoro per l’emigrazione polacca, in Palermo – di cui riportiamo testo e immagine, appartenente alla Collezione Leandro Mais di Roma. Il documento è la prima pagina di un elenco finalizzato alla raccolta fondi per sostenere gli emigrati polacchi: in alto a sinistra, primo sottoscrittore  Giuseppe Garibaldi, con un contributo mensile di Lire 5.

p.m.

COMITATO DI LAVORO PER L’EMIGRAZIONE POLACCA

IN PALERMO

IL COMITATO DI LAVORO PER L’EMIGRAZIONE POLACCA si propone di raccogliere un fondo per soccorrere mensilmente gli esuli polacchi dimoranti in Italia, non già per dar loro un soccorso infecondo e passeggero, ma nel fine di ajutarli ad imparare un’arte o un mestiere con cui possano ovunque procacciarsi una sussistenza onesta ma sicura.

Il Comitato persuaso che un popolo non deve lasciar morire di fame e di dolore i figli di un altro popolo che battono alla sua porta, è sicuro che gli Italiani risponderanno all’appello, perché non si dica che 22 milioni di popolo furono insufficienti ad ajutare meno di CENTO esuli polacchi che trascinano presentemente una vita oziosa ed infelice in terra italiana.

IL COMITATO ESECUTIVO – E. Albanese; E. Pantano; Prof. G. Monteforte; A. Salpietra; F. Valentini

 

      Gli Italiani del Perù a Nelaton e Zannetti – Medaglia  1862 di L. Seregni - A destra: entro una corona d’alloro, il bastone di Esculapio; a sinistra due specilli, a destra una pinza con la pallottola estratta dal piede di Garibaldi – (Collezione Leandro Mais – Roma)

       Per ricordare ancora una volta la data dello scontro tra Esercito Regio e  Volontari Italiani guidati da Giuseppe Garibaldi, riportiamo una sintesi del discorso pronunciato in Aspromonte il 29 Agosto 2013 dal Presidente dell’Associazione  

Per noi è importante che la memoria storica, uno dei valori fondamentali che definiscono il senso di partecipazione dei singoli alla comunità, si trasmetta di generazione in generazione, perché  la sua perdita, e dunque la perdita delle radici comuni, equivarrebbe a negare il futuro ai giovani. La nostra associazione è composta da persone che si riconoscono nei valori di libertà, giustizia e fraternità; valori che hanno mosso generazioni di patrioti ad impegnarsi per il progresso umano e civile del popolo italiano.

Oggi, forse più che in altri momenti storici, è necessario comportarci nella società civile con lo spirito garibaldino dei volontari, attenti agli sviluppi della politica, e vigilanti perché sia rispettata e attuata la costituzione repubblicana; nata, ricordiamolo sempre, con la Resistenza, dalle ceneri del più grande disastro umanitario, civile e sociale della storia.  Per questo abbiamo recentemente solidarizzato con tutti quei deputati e senatori della repubblica italiana che oggi, in parlamento, difendono l’art. 138 della nostra costituzione, la cui modifica aprirebbe la porta ad un cambiamento radicale del sistema istituzionale vigente.

La crisi che l’Italia sta oggi vivendo è pesantissima, non solo per l’economia, ma soprattutto per la perdita dei valori di riferimento nei quali riconoscerci in un concetto più ampio di Patria; e ce lo ricorda Giuseppe Mazzini ne “i doveri dell’uomo”: “finché un solo (cittadino) vegeta ineducato tra gli educati, finché un solo, capace e voglioso di lavoro, langue, per mancanza di lavoro, nella miseria, voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti”. La mancanza di lavoro su cui si fonda la costituzione repubblicana ha dunque come effetto indotto la perdita di un riferimento comune fondamentale: la Patria.

La  frase di Mazzini ci rende ancora più consapevoli che l’Italia, intesa come popolo, si debba ancora fare. ! è sorprendente l’affinità dei comportamenti dei politici di allora con quelli di oggi.  Il problema è di “formazione” che non può certo essere affidata ai cattivi esempi, alla corruzione e al malaffare; alle televisioni che hanno trasformato potenziali cittadini in esperti consumatori. No, non è questa l’Italia che vogliamo! Formazione, dicevo, ma occorre iniziare dal basso: la nostra prossima battaglia avrà come oggetto la scuola pubblica, perché venga ripristinato lo studio del risorgimento nella scuola primaria che, come certo saprete, è stato soppresso da diversi anni.  

Aspromonte – oggi siamo qui in Aspromonte! L’ignoranza su questo avvenimento è tutt’ora sconcertante: c’è chi ne sente parlare per la prima volta, chi lo confonde con l’impresa dei mille, affermando che lo scontro ci fu, ma tra i garibaldini e i Borboni! Così Garibaldi descrive, in poche righe, nelle sue memorie, il fatto: nel ’62 l’esercito italiano, perché più forte, e noi deboli assai, ci votò all’esterminio ed alacremente corse su di noi come su briganti, e forse più volentieri ! Intimazioni non ve ne furono di sorta…; si trattava d’esterminio e siccome tra figli della stessa madre potevasi temere titubanza, cotesti ordini furono senza dubbio, di non dar tempo nemmeno alla riflessione”. Quel ripetere due volte esterminio, ci fa capire bene ciò che ha rappresentato per l’Italia l’Aspromonte : spazzare una volta per tutte quel peso (ingombrante per la destra monarchica, e imbarazzante per la sinistra trasformista)  rappresentato da Garibaldi e dai volontari garibaldini.

Un problema essenzialmente politico di delegittimazione del movimento rivoluzionario nato fin dai primi moti carbonari e terminato con la disfatta di Mentana. E delegittimazione fu, anche grazie ad una sinistra che aveva perso la sua identità risorgimentale, come affermerà il deputato Matteo Renato Imbriani, che il 22 febbraio 1890 in una seduta del parlamento dirà: “non era questa, no, l’Italia sognata dai nostri sommi, sognata dai nostri martiri, sognata da Giuseppe Mazzini, sognata da Giuseppe Garibaldi e anche da Camillo Cavour, che aveva pur esso il sentimento dell’indipendenza, sebbene non egualmente quello dell’unità; non era questa l’Italia sognata da quei due grandi fattori della nostra indipendenza, del nostro risorgimento.”

C’è una lapide a “Centuripe” (En), scritta dal poeta Mario Rapisardi nel 1907 che riassume con efficacia il dramma dell’Aspromonte: “Giuseppe Garibaldi, intento alla liberazione di Roma /perseguitato come un masnadiero / da soldati italiani / per la doppiezza vile dei governanti / il 17 agosto 1862 / sostò coi suoi prodi in questa città….. il mancato parricidio d’Aspromonte / ferì il cuore della nazione / marchiò d’infamia il nuovo regno / non distolse l’eroe / dalla magnanima impresa / non offuscò la sua fede / nel trionfo di Roma / iniziatrice di un’era novella / nella storia della civiltà”.

Per concludere, una parola sul ruolo e il valore dei volontari che seguirono Garibaldi. Garibaldi stesso, nei suoi romanzi-verità mette spesso in evidenza  il contrasto fra la “schiera di volontari, di martiri, di eroi, le minoranze di cui non manca mai l’Italia”, e la “turba di codardi, di prezzolati, di prostituti, sempre pronti a inginocchiarsi davanti a tutte le tirannidi (e al capo carismatico di turno) e di quei sciagurati uomini che si chiamano moderati che, dice ironicamente: nel fare il bene sono moderati davvero!  Ma ciò che lo addolora di pù’ è riassunto in queste poche parole: “l’indifferenza di quelle masse, per cui uno si sacrifica è, infine, di tutti i mali il peggiore

L’indifferenza, che ancora oggi caratterizza l’analfabetismo civile di gran parte del popolo italiano, conferma, fuori di ogni dubbio, la necessità, come dicevo all’inizio dell’intervento, della sua educazione e formazione.

Ricordiamo, oltre ai volontari d’Aspromonte, anche i volontari della Repubblica Romana del 1849, dei Mille, di Bezzecca e di Mentana, ma anche del 1864 in Friuli, a Navarons : persone che hanno lasciato i loro affetti – che hanno dato tutto alla Patria; tra i superstiti, molti sono morti in povertà. Citerò, ora, i nomi di alcuni caduti dello scontro d’Aspromonte e dell’eccidio di fantina, al termine del quale propongo 10 secondi di raccoglimento in loro memoria:

QUI CADDERO IL 29 AGOSTO 1862:                                                                               

Monticco Alessandro-Garibaldino- da S. Vito al Tagliamento-anni 22               

Ricci N.-Garibaldino romagnolo                                                                                         

Urso Ignazio-Già tenente dei bersaglieri-Nato a Palermo-anni 33

FURONO FUCILATI A FANTINA IL 2 SETTEMBRE 1862 :                                 

Balestra Giovanni-Bersagliere-N. Roma-anni 21 (Preso prigioniero e interrogato, rispose fieramente di non considerarsi disertore perchè seguire Garibaldi significava insediare Vittorio Emanuele in Campidoglio)                                                                 

Bianchi Costante-Bersagliere-N. forse a Graffignano (VT)                             

Botteri Giovanni-Calzolaio-Nato a Parma-anni 21 (già combattente nel ’59 e ’60) 

Cerretti Giovanni-Bersagliere-Nato a Trecenta (Rovigo)-anni 17                      

Della Momma Barnaba-Bersagliere-Nato a Roma                                           

Grazioli Ulisse-Garibaldino-Nato a Parma                                                            

Pensieri Ernesto-Garibaldino-Nato forse a Pavia

(PAUSA DI RIFLESSIONE)

CONCLUDO CITANDO GIUSEPPE GARIBALDI CHE NE “I MILLE” COSI’ SI ESPRIME SUI VOLONTARI, MORTI E FERITI IN TANTE BATTAGLIE:

” IO LI HO VEDUTI MORENTI ! E NARRO DI LORO COGLI OCCHI UMIDI E IL CUORE COMMOSSO. SI ! MORENTI QUEI MIEI CARI GIOVINETTI ! LEONI SUL CAMPO DI BATTAGLIA, ORA GIACENTI SUL LETTO DEL DOLORE; MOLTI NON GIUNGEVANO AI TRE LUSTRI ! LE LORO BELLE CAPIGLIATURE, BIONDE, NERE, CASTAGNE – POICHE’ ESSE PONNO ADDITARE ALLE VARIE LATITUDINI DI QUESTA NOSTRA BELLA PENISOLA – LE LORO BELLE CHIOME ERANO SCAPIGLIATE, ED A MOLTI INTRISE DI SANGUE ! IO PIANGO SCRIVENDO !… I LORO OCCHI INFANTILI – IN CUI HAN CESSATO DI BEARSI LE GENETRICI SVENTURATE – I LORO OCCHI, RIVOLTI A ME, ANIMARONSI, COME SE VOLESSERO RASSICURARMI, CONSOLARMI DEL MIO CORDOGLIO E DIRMI:”NON E’ NULLA ! IL DOVER NOSTRO L’ABBIAM FATTO, E MORIAMO CONTENTI, GIACCHE’ LA VITTORIA SORRISE ALLE ARMI DEI VALOROSI! A MOLTI, IL LORO ULTIMO PENSIERO ERA RIVOLTO A QUESTA TERRA, CHE PER LORO, PER IL NOBILE SACRIFICIO DELLA LORO VITA, NON SARA’ PIU’ ANCELLA DI PREPOTENTI – E MORIVANO ESCLAMANDO: “VIVA L’ITALIA !” E L’ITALIA LI HA SCORDATI; POVERI GIOVANI!…

SI, L’ITALIA RAMMENTERA’ IL VOSTRO EROISMO, QUANDO, PASSATI QUESTI SCHIFOSI TEMPI DI MISERIE, DI DEPREDAZIONI  E DI GARANZIE ALLA MENZOGNA – CHE RIDICOLISSIMAMENTE OCCUPANO TUTTI GLI ISTANTI DI QUESTE CIME REGOLATRICI DEL MONDO – ESSA POTRA’ VIVERE DIGNITOSAMENTE E LIBERAMENTE SENZA OFFENDERE, MA SENZA TEMER NESSUNO.

VIVA L’ITALIA, VIVA GARIBALDI, VIVA I VOLONTARI GARIBALDINI

Il 4 Luglio 2015 una delegazione dell’Associazione “Garibaldini per l’Italia” si è recata, su invito dell’Associazione “Capitolium” di Brescia, al Sacrario di Monte Suello per rendere omaggio ai caduti garibaldini della battaglia della Bezzecca. Lo spirito risorgimentale è ancora alimentato, in quei luoghi, da poche ma valide persone che dedicano una parte del loro tempo alla conservazione e valorizzazione  della memoria storica, in un ambito istituzionale praticamente assente. Abbiamo così avuto il piacere di conoscere il presidente della “Capitolium”, Federico Vaglia, e il vice-presidente Sergio Masini, e condividere la celebrazione con il gruppo garibaldino di Corrado Perugini e altri rappresentanti di associazioni d’arma.  

L’attività  dell’Associazione Capitolium  non si limita solo alla cura del sacrario garibaldino di Monte Suello, ma è particolarmente attenta alla salvaguardia dei beni culturali,  concentrati in quel grande e importante complesso monumentale  del Cimitero Vantiniano di Brescia, esempio unico di un’architettura cimiteriale integrata, in cui la città dei vivi e dei morti diviene un unicum atemporale, esaltato dal segno metafisico del classicismo greco.

                                                                                

     

Nell’elenco dei caduti di Monte Suello  è scritto il nome del  garibaldino Giovanni Mazzini. Giovanni Mazzini era nato a Terni ma cresciuto a Roma. Come ci ricorda un prezioso documento di proprietà del collezionista Leandro Mais, il Mazzini “studiò pittura, partì nel 1848 con il Battaglione degli Studenti e combatté a Vicenza e Treviso e dopo tornato in Roma prese parte alla sua difesa. Patriota, fiero e vero repubblicano, cospirò. Il ritratto in grande di Garibaldi gli fu ordinato dai patrioti dell’Umbria”. Il testo riportato, a firma di Oreste Fallani, faceva parte del retro del quadro citato. Il racconto narrato dal Fallani sulla storia dell’autore del dipinto, Giovanni Mazzini, e di seguito riportato, è tragico, e ogni commento sarebbe superfluo. “Ritratto di Garibaldi eseguito a Caprera nel 1864 da Giovanni Mazzini romano, morto nel 1866 combattendo sul Tirolo e sepolto nel Cemetero di Brescia. Regalatomi da lui stesso in Torino, appena io ero tornato dalla guerra della Polonia ove sarebbe partito con me se non fosse stato malato. (Dalle mie memorie) – Ferito gravemente in petto ed alla gamba a Monte Suello, fu portato allo spedale di Brescia e stava per guarire, quando avendo inteso che ci dovevamo ritirare dal Tirolo – Ritiratevi! (Colla risposta del Gen. Garibaldi, Obbedisco!) stracciatesi le bende delle ferite, bevuta una carafa di grappa, infiammatesi dette ferite volle morire”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL FATTO

Garibaldi aveva combattuto da pari suo. Il 25 Giugno (1866) aveva spedito dalla valle del Chiese una colonna di volontari al forte di Caffaro con l’ordine di prenderlo; l’ordine fu eseguito in onta alla forte resistenza opposta dal presidio. Saputo che il nemico minacciava di girare Rocca d’Anfo, mandò a combatterlo il colonnello Corte. Il combattimento ebbe luogo il 3 Luglio a Suello e fu micidiale; lo stesso Garibaldi, che volle prender parte all’azione, rimase ferito ad un piede; ma la vittoria fu dei nostri. il 5 luglio invece i suoi volontari, sorpresi a Vezze da una forte colonna nemica, furono messi in rotta.  Ma Garibaldi, quantunque col cruccio nell’anima per la notizia avuta della cessione della Venezia proposta dall’Austria in  modo tanto urtante la dignità dell’Italia, nell’intendimento di muovere su Trento, si dispose alla presa del forte dell’Ampola che gliene intercludeva la via. Dopo tre giorni di combattimento (16-19 luglio) il forte dovette arrendersi; ma ad altro ben duro cimento i volontari dovevano esporsi. Il Generale Kuhn con forte nerbo di armi li assalì, mentre apprestavansi a espugnare il forte di Lardaro. Grave e micidialissima fu la battaglia detta della Bezzecca dalla località nella quale i garibaldini erano accampati; ma il 21 Garibaldi respinse il nemico e il 22 riuscì a prendere quel forte e ad avere così libera la via per Trento. Nel giungere a Riva trovò però l’ordine di evacuare il Trentino perché l’armistizio era stato concluso. Il suo cuore ne provò terribile strazio. Ma il sentimento della disciplina potè nell’Eroe sopra qualsiasi altra considerazione, e con intuito da uomo superiore rispose a quell’ordine con una sola parola: obbedisco. (Antonio Dall’Oglio: Compendio della storia contemporanea d’Italia (1815-1870) – Firenze 1911)

LA SCOPERTA

        L’attento studioso e ricercatore Leandro Mais, noto collezionista dell’universo garibaldino, ci ha svelato un piccolo segreto su una firma erroneamente attribuita a Garibaldi (che potete vedere meglio cliccando sulla foto d’inizio pagina per ingrandirla); notizia che  conferma, ancora una volta, la recidività dell’errore umano che si perpetua nel tempo, fin quando non interviene qualcuno a spezzarne il corso. Seguiamo dunque l’articolo di Leandro Mais e le motivazioni che lo hanno portato a smentire quanto citato in pubblicazioni, mostre e perfino lapidi; un contributo che potrà essere interessante divulgare nel 2016 in occasione del 150° anniversario della battaglia della Bezzecca:

Questo articolo vuole far luce  su uno dei più noti documenti garibaldini: il telegramma di Garibaldi col celebre OBBEDISCO. Tutti sanno che dopo la sconfitta di Custoza e Lissa il comando dell’esercito regio dovette in tutta fretta chiedere un armistizio agli Austriaci, i quali imposero la restituzione delle zone conquistate da Garibaldi. A seguito di ciò il comandante supremo Gen. La Marmora manda da Padova un telegramma a Garibaldi, ordinandogli appunto il ritiro da quelle terre. Il 9 Agosto 1866 da Bezzecca Garibaldi invia al Comando Supremo di Padova il famoso telegramma di risposta :”Ho ricevuto il dispaccio n° 1073 /obbedisco – G. Garibaldi”.  Questo telegramma, che reca la firma autografa dell’Eroe, è oggi conservato presso l’Archivio Centrale di Stato di Roma.

Naturalmente il telegramma, inviato a mezzo telegrafo, partito da Bezzecca alle 10,11 e arrivato al Comando Supremo di Padova alle 10,26, veniva trascritto da un anonimo telegrafista che vi apponeva in calce il nome del mittente: G. Garibaldi. Qui di seguito si riporta il telegramma di arrivo che è conservato a Roma, presso l’Ufficio Storico dell’Esercito, la cui riproduzione possiamo vederla pubblicata nella prima edizione (1966) del libro di Ugo Zaniboni – Ferino:”Bezzecca 1866″ (edizioni Arti Grafiche Saturnia – Trento), a pag. 180 e ripetuta nella seconda edizione (1987) a pag. 235, con la seguente didascalia:” Il telegramma di risposta di Garibaldi”. Così, come laconicamente espresso dalla didascalia che accompagna questo documento, si può pensare che possa trattarsi dell’originale di Garibaldi, mentre in realtà trattasi del testo di arrivo a Padova.

Ancora. Per il centenario della battaglia di Bezzecca, veniva posta all’interno dell’omonimo edificio comunale (oggi Pieve di Ledro), una lapide marmorea che riproduceva, in luogo dell’originale firmato da Garibaldi, quello di arrivo a Padova presso il Comando Supremo dell’Esercito. Non solo sono stati riportati in alto gli stessi dati del telegramma in arrivo a Padova ma, incredibile a vedersi, troviamo in basso al testo, sotto il celebre “obbedisco”, anziché la notissima firma dell’Eroe, la parola Garibaldi scritta dall’anonimo telegrafista di Padova, il quale ha tracciato inconsapevolmente il nome Garibaldi secondo il suo…estro.

Ma la cosa che ci lascia sconcertati è la riproduzione di questa “falsa” firma di Garibaldi che troviamo ancora nella copertina del catalogo della mostra dei cimeli garibaldini organizzata a Roma dal Circolo delle Forze Armate d’Italia, Palazzo Barberini  – Maggio giugno 1982. Ciò ci fa capire che per l’Ufficio Storico dell’Esercito la didascalia apposta sotto il telegramma di arrivo a Padova (immagine iniziale con l’effige di Garibaldi) è da considerarsi il telegramma originale di Garibaldi. Mi auguro (e con me anche tutte le persone di buon senso) che dopo queste brevi ma chiare precisazioni, il discorso su questo noto documento dell’Eroe sia finalmente un punto della nostra storia risorgimentale definitivamente chiarito.

Pensando di fare cosa grata ai lettori aggiungo questa notizia che riguarda il celebre telegramma: Nel paese di San Giovanni di Marignano (Forlì), via Roma n°39, nella lapide murata di una modesta casa si legge:” In questa casa nacque il volontario garibaldino /Respicio Olmeda Bilancioni /(1839-1901) / Il telegrafista che il 9 Agosto 1866 trasmise da Bezzecca / il famoso telegramma “OBBEDISCO” di Garibaldi / San Giovanni in Marignano 18 Dicembre 1966 / Il Comune a nome della cittadinanza marignanese /nel 65° di sua morte. Questa lapide è citata a pag. 251 del libro di Adler Raffaelli : L’unità d’Italia nelle epigrafi di Romagna – Ed. Provincia di Forlì 1986. (Leandro Mais)

Il 4 Luglio 2015 una delegazione dell’Associazione “Garibaldini per l’Italia” sarà presente, su invito dell’Associazione “Capitolium”, al Sacrario di Monte Suello per rendere omaggio ai caduti garibaldini della battaglia della Bezzecca.

        La Prima Guerra Mondiale scoppiò quando il secolo XX era iniziato con grandi speranze di pace. Nessuno avrebbe mai immaginato l’immane catastrofe che in breve tempo avrebbe coinvolto i popoli del mondo intero; nessuno eccetto qualche voce profetica fuori dal coro. La profezia, è bene ricordarlo, non è un dono divinatorio, ma la capacità di sintesi che intellettuali di grande spessore culturale riescono a praticare mettendo insieme fatti, esperienze, informazioni storiche e del mondo contemporaneo. Uno di questi fu l’economista russo-polacco Ivan S. Bloch che nel 1898 scrisse l’opera in sei volumi  “Modern War and Modern Weapons”, nella quale preannunciò, con motivazioni inconfutabili, gli effetti devastanti che avrebbe causato una guerra moderna, alla luce delle nuove invenzioni tecnologiche. Purtroppo  il suo grido d’allarme fu ignorato e il mondo precipitò nell’abisso più nero; un disastro che innescherà il comunismo e il fascismo e creerà i presupposti per lo scoppio della seconda Guerra Mondiale. Dopo l’attentato di Sarajevo del 28 Giugno 1914, in cui il terrorista serbo Gavrilo Princip uccise l’arciduca erede al trono dell’impero austro-ungarico Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, gli eventi precipitarono molto rapidamente. L’irredentismo Serbo, sostenuto dalla Russia, mirava alla costituzione di una nazione degli slavi del sud (successivamente Jugoslavia),  il cui primo passo sarebbe stata l’annessione della Bosnia Erzegovina a danno dell’Impero Austro-Ungarico. L’imperatore Francesco Giuseppe, appoggiato dalla Prussia (paese membro insieme all’Italia della Triplice Alleanza), decise d’intervenire anticipando il proposito di unificazione, prima attraverso un ultimatum alla Serbia le cui clausole violavano apertamente  la sua integrità territoriale, poi dichiarandole guerra il 28 Luglio. L’effetto domino di coinvolgimento delle potenze europee fu immediato. L’Italia, poiché non era stata informata degli accordi che prevedevano l’entrata in guerra e giudicando tale comportamento una violazione del patto, si era inizialmente dichiarata neutrale  attraverso iniziative del primo Ministro Antonio Salandra e del ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano, poi sostituito da Sidney Sonnino. Successivamente, dopo una serie di trattative con gli Stati dei due schieramenti per ottenere le migliori concessioni territoriali che giustificassero il suo intervento, entrò nel conflitto dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità,  alleandosi con la Triplice Intesa (Francia, Russia e Inghilterra).

Anche il movimento socialista internazionale, che fin dall’inizio si era dichiarato contrario alla guerra, dovette ben presto fare i conti con i nazionalisti: tedeschi e francesi finirono per schierarsi con i governi dei loro due paesi, mentre i socialisti italiani e quelli russi optarono per la neutralità. Il fatto che favorì l’accelerazione delle posizioni interventiste fu l’uccisione, il 31 luglio, del leader socialista e pacifista francese Jan Jourès ad opera di un nazionalista favorevole allo scontro tra Francia e Germania. In Italia l’opinione pubblica si spaccò in due: inteventisti e neutralisti. Da un lato la destra nazionalista e filo teutonica, i repubblicani, i radicali e i sindacalisti rivoluzionari; dall’altro i socialisti, i cattolici e i liberali giolittiani. Sia i socialisti riformisti, capeggiati da Filippo Turati, che i massimalisti di Benito Mussolini, optarono per la neutralità . Dopo l’invasione del Belgio neutrale e la scesa in campo dell’ Inghilterra in sua difesa, alcuni interventisti di area socialista come Gaetano Salvemini, Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati, preoccupati del nascente potere autoritario e militarista dell’Austria-Ungheria e della Germania, si schierarono con la corrente detta dell’ “interventismo democratico”, orientata a sostegno di Francia e Inghilterra, stati a fondamento  democratico. In questa fase nacque, soprattutto tra le file repubblicane a radicali, la corrente dell’irredentismo e dell’amor di Patria, specialmente in Trentino e in Friuli-Venezia Giulia, come naturale continuazione del Risorgimento per il compimento dell’unità nazionale.

Tra i socialisti italiani prese consistenza una corrente interventista dei cosiddetti “sindacalisti rivoluzionari” (Fratelli Alceste e Amilcare De Ambris, Filippo Corridoni, Angelo Uliviero Olivetti ) che diedero vita al Fascio Rivoluzionario d’Azione, cui aderirà nell’ottobre 1914 il socialista Benito Mussolini, passando repentinamente su posizioni interventiste. Sconfessato  dai socialisti e licenziato dalla direzione dell’Avanti, Mussolini fondò il Popolo d’Italia, giornale finanziato da capitali francesi e inglesi, e industriali interessati alle commesse per l’esercito, di chiara impronta interventista, che gli procurò l’espulsione dal partito socialista. Anche l”apocalisse rigenerativa” degli scritti di futuristi come Giovanni Papini  e Filippo Tommaso Marinetti  contribuiranno a rafforzare le posizioni dei “sindacalisti rivoluzionari”.

L’Italia entrò in guerra contro gli imperi centrali il 24 Maggio 1915.

Paolo Macoratti