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Accogliamo l’invito di Arturo De Marzi, componente del Coordinamento ReteTutela Roma Sud , a pubblicare la lettera che lo stesso Comitato ha voluto indirizzare al Papa , spes ultima dea, per  fermare la realizzazione, da parte del Comune di Roma, del Termovalorizzatore di Santa Palomba, nell’area dei Castelli Romani. 

Di seguito il testo di denuncia e la lettera al Papa

Non bruciamo il nostro futuro

Salve, approfittiamo della gentile ospitalità di questa  redazione   innanzitutto per presentarci,  il Coordinamento ReteTutela Roma Sud  è costituito da una Rete di associazioni, comitati e aziende dei Castelli Romani e dell’Agro Romano Meridionale fino al mare, territorio che prima ancora di Roma ospitò la Civiltà Latina.

I nostri obiettivi.
· Proteggere e rendere migliori le terre che abitiamo, l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo, per poterle lasciare ai nostri figli nelle condizioni in cui ce le hanno consegnate i nostri padri.
· Difendere il paesaggio e la natura, già tanto offesa, da ogni altra aggressione perché ogni persona possa viverci meglio e con più consapevolezza.
La priorità che ci vede coinvolti in questi mesi è fermare il termovalorizzatore che il Sindaco Gualtieri vuole realizzare nel territorio di S.Palomba  in virtù di poteri speciali assegnati   …impropriamente dal precedente governo in vista dell’ emergenza rifiuti correlata al Giubileo del 2025. L impianto che intende realizzare il Commissario Straordinario, sarà un Inceneritore capace di bruciare 600mila  To/anno di  materie prime potenzialmente riciclabili, invece di adottare possibili   modelli alternativi indicati dall’Unione Europea basati sulla riduzione, riuso e riciclo, …ovvero nella logica di una Economia circolare.
Consci delle gravissime ricadute Ambientali  che corre il nostro territorio nell’ alveo dei Castelli Romani, un bacino virtuoso  che tra l’altro  si è portato a una percentuale maggiore dell’ 80% di raccolta differenziata, continuiamo a  batterci per difendere la nostra terra attraverso gli strumenti della controinformazione e della legalità.

Fondamentale in questa battaglia è raggiungere una consapevolezza collettiva, perché solo insieme si migliora il futuro, trasformando le idee in azioni concrete.

Tra le varie iniziative adottate, la prossima sarà quella che ci vedrà, sabato 18 nov., consegnare alla segreteria del Papa una lettera sottoscritta da centinaia di cittadini nella quale oltre a esternare la preoccupazione per il nostro territorio minacciato dal progetto dell’Inceneritore,  …preoccupazione condivisa anche se si facesse da un’altra parte,  contestiamo oltre la soluzione tecnica proposta per risolvere l’ annoso  problema della gestione dei rifiuti della Capitale, la strumentalizzazione alla base di questa scelta obsoleta, ovvero che il prossimo Giubileo che la Chiesa Cattolica celebrerà nel 2025 viene utilizzato  per giustificare i poteri speciali con i quali, in deroga alle leggi regionali e nazionali che tutelano salute e diritti dei cittadini, si intende realizzare/imporre l’impianto di incenerimento in evidente contraddizione con i contenuti di Cura e Tutela dell’ Ambiente riportati nell’ Enciclica,  impianto che, …nel caso, non sarà comunque operativo per il 2025 ma ben oltre.
Sabato  mattina 18 novembre 2023 una staffetta composta da cittadini, camminatori, ciclisti ecc.  partirà da Albano e in varie tappe si porterà per le ore 16  presso la staz. Roma-S.Pietro , da li ricomposti i gruppi, si proseguirà insieme verso  piazza S. Pietro, dopodiché una delegazione si recherà presso la segreteria Vaticana  per la consegna ufficiale della lettera.

 “Se i cittadini non controllano il potere politico nazionale, regionale e municipale, neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali [179].”

Per info, auspicando una partecipazione numerosa da parte dei cittadini romani: www.retetutela.wordpress.com

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In allegato, la lettera al Santo Padre

Albano, 12-11-2023                                                              ReteTutelaRomaSud

lettera che a giorni il Coordinamento ReteTutelaRomaSud consegnerà a sua Santità Papa Francesco

Santità,
siamo una Rete di associazioni, cittadini, parrocchie, che si rivolge a Lei per parlarLe di un problema che sta interessando il nostro territorio e che sappiamo starLe particolarmente a cuore, perché riguarda la nostra “casa comune”, la madre terra e la salute dei suoi abitanti.
Esiste il progetto per realizzare un termovalorizzatore a servizio di Roma di cui Lei è Pastore, che il commissario straordinario del Governo ha deciso di costruire all’estrema periferia sud della Capitale, un’area densamente popolata.
Abbiamo a cuore la pulizia e il decoro della Città eterna, tanto quanto la salute del pianeta in cui viviamo, che merita l’impegno di tutti per lasciarlo ai nostri figli in condizioni migliori di adesso.
Ci spiace doverLa interpellare direttamente, ma c’è il concreto rischio che il prossimo Giubileo che la Chiesa Cattolica celebrerà nel 2025, possa essere strumentalizzato per giustificare i poteri speciali con i quali, in deroga alle leggi regionali e nazionali che tutelano salute e diritti dei cittadini, si vorrebbe realizzare l’impianto di incenerimento, che tra l’altro non sarà pronto per il 2025.
Tutto questo ci obbliga a prendere posizione come comunità, credenti e non, uniti per reagire all’indifferenza e alla cultura dello scarto dilagante, promuovendo con forza una cultura della cura poiché, come Lei ci ha ricordato nell’enciclica Laudato si’: se i cittadini non controllano il potere politico nazionale, regionale e municipale, neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali [179]. Abbiamo purtroppo constatato come infatti, in Italia, tutti i recenti disastri ambientali siano venuti alla luce proprio grazie all’azione popolare (i.e. ILVA di Taranto, inceneritore di Colleferro, PFAS in Veneto, ecc.).
Come saprà sul tema dei rifiuti l’Unione Europea ha individuato nella riduzione, riuso e riciclo la soluzione principale, lasciando l’incenerimento all’ultimo posto insieme alla discarica, a causa del loro impatto negativo sull’ambiente. L’adozione di nuove soluzioni più moderne era stata già recepita dal piano industriale dell’azienda municipale dei rifiuti di Roma del 2015, non realizzato a causa dell’interruzione anticipata del mandato del sindaco Ignazio Marino, e dallo stesso piano dei rifiuti della Regione Lazio del 2020.
Pensiamo non si possa accettare una tecnologia dannosa, che nulla ha a che fare con il decoro di Roma, compromesso dal sistema di raccolta tramite cassonetti stradali e dal senso civico dei suoi abitanti. La scelta sembra più utile a tutelare gli interessi di chi finora ha guadagnato grazie allo smaltimento dei rifiuti in discarica o nei termovalorizzatori, incassando un enorme flusso di denaro che verrebbe interrotto se invece i rifiuti fossero separati e venduti come materie prime.
La Sua enciclica, indicava già la strada da seguire. “A causa della complessità tecnica della materia, al momento di determinare l’impatto ambientale della soluzione per lo smaltimento dei rifiuti diventa indispensabile dare ai ricercatori un ruolo preminente e facilitare la loro interazione, con ampia libertà accademica [140]”. Cosa che non è stata fatta in questi mesi, durante i quali la politica si è sostituita alla scienza e, in maniera autoritaria, ha scelto di utilizzare una tecnologia che negli altri Paesi è in fase di regressione in quanto superata da soluzioni più sostenibili.
A proposito della «gerarchia dei rifiuti», di derivazione comunitaria, la «prevenzione» viene indicata come priorità rispetto al riciclo, al recupero ed allo smaltimento, di modo che sarebbero da privilegiare tutte le iniziative tese ad impedire la formazione di rifiuti, perché il miglior rifiuto è quello non prodotto. Gli Stati hanno quindi la possibilità di esercitare un sindacato sulle scelte aziendali oggi effettuate soprattutto in funzione di obiettivi di profitto economico, come recita la nostra Costituzione, affermando che l’iniziativa economica non può recare danno alla salute e all’ambiente, principio recepito nella proposta di legge di iniziativa popolare “Rifiuti Zero”, ancora in attesa di approvazione. “Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria… Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro [194]”
L’Italia vanta un primato nel riciclo dei materiali, che in una fase di carenza delle materie prime può ancor più rappresentare un vantaggio competitivo per il Paese, oltre che ambientale per il pianeta, consentendo ai cittadini romani di non pagare per lo smaltimento presso discariche e inceneritori, ma essere pagati per le materie prime raccolte.
Si intende “risolvere” la questione dei rifiuti senza minimamente tentare di collegarla ad un cambiamento del tipo di sviluppo imposto al nostro Paese, oggi basato su una “crescita” quantitativa avulsa dalla qualità della vita dei cittadini. Il ricorso ai termovalorizzatori, infatti, è funzionale a un aumento dei consumi e quindi dei rifiuti, perché quanti più rifiuti si producono tanto più cresce l’economia.
Esattamente l’opposto di quanto propone l’enciclica Laudato si’, la quale evidenzia che: l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca [204].
Esistono forme di inquinamento che colpiscono quotidianamente le persone. L’esposizione agli inquinanti atmosferici produce un ampio spettro di effetti sulla salute, in particolare dei più poveri, e provocano milioni di morti premature [20]. Forse è per questo che è stato scelto un sito vicino a Borgo Sorano, un “ghetto” di case popolari dove vivono già 300 famiglie, accanto al quale hanno aperto un cantiere per realizzare altri 1.000 appartamenti dove deportare altri 4.000 abitanti in difficoltà economiche: L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme… Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta [48].
Riteniamo sia indispensabile supportare i le cittadine ed i cittadini di Roma nel loro impegno di restituire alla Città il decoro che merita nella consapevolezza che la cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale… Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema [111].
Saremmo pertanto onorati se volesse concederci un’udienza per poterLe presentare la nostra proposta di costituire una commissione internazionale di esperti indipendenti con esperienza in campo ambientale e nello smaltimento dei rifiuti, ai quali affidare la scelta delle migliori soluzioni disponibili, in modo da prendere in considerazione tecnologie più moderne e meno impattanti.
Con ogni migliore augurio, La salutiamo certi del Suo sostegno concreto e della Sua paterna preghiera.
Albano Laziale, 17 settembre 2023

 L’ASSOCIAZIONE GARIBALDINI PER L’ITALIA HA PORTATO A  TERMINE LA SETTIMA EDIZIONE DEL CONCORSO ALBERTO MORI, GARIBALDINO DEL TERZO MILLENNIO

Hanno collaborato: Arch. Paolo Macoratti (Presidente) – Sig.ra Monica Simmons (Segretaria) – Prof.ssa Silvia Mori – Signor Stefano Dini

     Ricordiamo le finalità di questo Concorso: sensibilizzare le giovani generazioni alle vicende storiche e umane della Repubblica Romana, primo tentativo organico e istituzionale di creare l’unità d’Italia attraverso la formazione di una Repubblica democratica parlamentare a suffragio universale. Gli alunni, dopo una visita al Museo della R.R. e ai luoghi delle battaglie, hanno potuto analizzare il contenuto di alcune lettere di corrispondenza scritte nel periodo 1846-1849 da testimoni che hanno vissuto a Roma gli avvenimenti storici della nascita della Repubblica Romana e della sua gloriosa fine (Lettere facenti parte della collezione storica Leandro Mais). In questa prospettiva il singolo allievo ha elaborato un componimento a tema: “la lettera che avrei voluto scrivere io al mio più caro amico, durante la Repubblica Romana del 1849“.

CRITERI DI VALUTAZIONE DEL CONCORSO

Nel giudicare le lettere scritte dai ragazzi, si è dato più valore alla sostanza che alla forma; abbiamo considerato quattro punti:

  1. Assimilazione dei contenuti storici
  2. Originalità della composizione
  3. Interpretazione personale dei fatti accaduti
  4. Interpretazione personale dei valori etici e costituzionali

Non abbiamo penalizzato chi ha copiato alcune frasi da internet, in quanto ricadenti nell’ambito del laboratorio di ricerca; abbiamo penalizzato invece chi ha copiato male, riportando fatti, estranei al contesto storico della Repubblica Romana.

Le scuole partcipanti:

ISTITUTO PINO PUGLISI – III CLASSI, SEZIONI B,C,D,E                                                                           

ISTITUTO GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI – CLASSE II B

 

I VINCITORI DEL CONCORSO

DI CIASCUN ALLIEVO SI RIPORTANO ALCUNE FRASI DEL SINGOLO COMPONIMENTO 

ISTITUTO PINO PUGLISI – III B

Selezionati: Giulio Balzano, Giulio Caponio, Diana Di Donato, Alessia Mercuri, Mattia Montanaro, Vanessa Porcaro.

3° CLASSIFICATO – MATTIA MONTANARO

“Sotto di loro c’erano anche le tre bandiere dei regni. Io e i miei amici abbiamo parlato di quel manifesto per tutto il resto della giornata, magari questa volta il nostro sogno si avvererà”.

 

 2° CLASSIFICATO – VANESSA PORCARO

“Ho appena letto la Costituzione e non potrei essere più fiero di appartenere a questa Patria; l’articolo 5 mi è piaciuto particolarmente, parla della nostra forma di governo, “la democrazia pura” a cui sarà dato “il glorioso nome di Repubblica Romana”.

 

 1° CLASSIFICATO – DIANA DI DONATO

“ Finalmente i tempi sono maturati e il Papa ha solo il potere spirituale e non più quello temporale che fortunatamente è nelle mani del popolo. Tutti siamo animati dal desiderio di uguaglianza e libertà e da quello di immaginare un giorno non lontano in cui ogni cittadino italiano possa cantare canzoni analoghe”

 

 ISTITUTO PINO PUGLISI – III C

Selezionati: Edoardo Morellini, Edoardo Natale, Aurora Rossi, Martina Savini, Greta Tassini.

3° CLASSIFICATO – MARTINA SAVINI

“Si respira mia cara, un’aria di speranza e fiducia nel futuro mai sentite prima. Finalmente anche a Roma (la Roma dei papi!) quei principi della rivoluzione francese a noi due tanto cari, uguaglianza, libertà, fraternità potranno essere fondamento della nostra Repubblica”.

 

2° CLASSIFICATO – EDOARDO MORELLINI

“Per riportare il Papa sul trono è accorsa la Francia, ma per difendere la Repubblica sono arrivati a Roma giovani da ogni parte d’Italia e Garibaldi con i suoi volontari, tra cui il patriota Goffredo Mameli che ha scritto un “Canto degli Italiani. Chissà se questo inno diventerà importante per l’Italia e cantato anche in futuro”.

 

1° CLASSIFICATO – GRETA TASSINI

“Ho implorato Carlo di Rimanere a casa, ma lui il 30 Aprile, all’alba, era già pronto in prima linea a difendere le porte della città dall’attacco francese. Quando questi sono giunti, abbiamo sentito un forte rumore di cavalli e ferraglie; è stato spaventoso. La mamma non smetteva di piangere. Per un momento abbiamo pensato di essere salvi, dato che i nostri vicini ci hanno detto che i Francesi non erano riusciti ad abbattere Porta Pertusa (murata da anni)…”

 

ISTITUTO PINO PUGLISI – III D

 Selezionati: Alberto D’Angelo, Arianna Lamorgese, Federico Moretti, Christian Mormile, Nicole Moro e Martina Dalia, Camilla Zamponi.

3° CLASSIFICATO – Pari merito - CAMILLA ZAMPONI

“Oggi, camminando per le strade di Roma barocca, vidi l’orrore che aumentava nell’assistere all’assedio, che mi pareva una cosa impossibile; i corpi dei morti in battaglia mi impressionavano e il pensiero che più di duemila vite venivano portate via da pallottole di pistola e lame di spada, mi inorridiva”.

 

3° CLASSIFICATO – Pari merito CHRISTIAN MORMILE (scritta a mano)

“Qualche mese fa io e il mio caro amico Giulio abbiamo preso parte ad una rivolta nella quale abbiamo protestato forte contro le leggi oppressive dello Stato della Chiesa, e abbiamo rischiato di essere imprigionati, ma per fortuna siamo riusciti a scampare. Grazie a questa rivolta e ad altre che si sono succedute, il Papa ha ceduto e ha concesso queste libertà”.

 

2° CLASSIFICATO – ARIANNA LAMORGESE

“A quel punto, stupiti dalla nostra resistenza, e includo anche me dicendo “nostra” perché mi sento parte di questa battaglia, si sono spostati e divisi andando a Porta Angelica e a Porta Cavalleggeri. Pensavano di avere più fortuna; fortuna che però non ebbero, dal momento che li respingemmo anche lì. A questo punto furono costretti a ritirarsi, sconfitti e umiliati dalla potenza dell’eterna città. Garibaldi, e ovviamente anche Giulio, avrebbe voluto inseguirli, ma fu persuaso da Mazzini a lasciarli andare e liberare i prigionieri”.

1° CLASSIFICATO – ALBERTO D’ANGELO (scritta in corsivo)

“Oggi 3 luglio 1849, termina la nostra libertà; i Francesi hanno avuto la meglio e, a breve, il Papa tornerà al posto dove lo vogliono. I vili vincitori, così, avanzeranno le loro condizioni per una pace. Noi, però non accetteremo mai le loro sporche condizioni contro la nostra libertà; noi promulgheremo la Costituzione, nonostante non sia più possibile riprendere Roma e cacciare i Francesi, dato che anche Garibaldi è andato via. Adesso, però, ti devo salutare, amico mio, ma tu ricorda sempre: Viva la Repubblica. Viva la libertà, Viva l’Italia”.

 

ISTITUTO PINO PUGLISI – III F

Selezionati: Lucilla Di Coppola, Simone Di Renzo e Manuel Gerace, Tommaso Franchi, Greta Volpes, Nicole Volpes, Carlotta Zamponi.

 

3° CLASSIFICATO – NICOLE VOLPES

“Con il passare dei giorni peggioro e le medicazioni qui scarseggiano, così come i dottori che sono stati mandati la maggior parte sui campi di battaglia; le infermiere dicono che non mi resta molto tempo. Non so come dirlo a mia moglie…sai, ci ho pensato, non ho paura di morire solo, e non sono neanche più di tanto triste di stare per morire, perché so di averlo fatto per la mia Patria.”

 

2° CLASSIFICATO – GRETA VOLPES

“La sensazione che mi opprimeva è divenuta realtà; sono stato chiamato per andare in battaglia. Da ciò che mi hai riferito ho timore di morire perché alcuni sono partiti, ma non hanno più fatto ritorno e se ne sono perse le tracce; ed altri sono tornati, ma mal ridotti però. Ora non posso tirarmi indietro per la mia famiglia e la Repubblica, che tanto amiamo e ammiriamo. Se non hai più mie notizie non angosciarti troppo; cercherò di stare attento, fai sapere alla mia famiglia che le voglio bene”.

 

1° CLASSIFICATO – TOMMASO FRANCHI

“Durante il giorno si odono solamente spari, urla, cannoni e l’odore del sangue ci avvolge e non ci fa respirare; vedo in continuazione morire i miei compagni sotto i miei occhi e tutto questo mi addolora tantissimo; ma ho anche assistito ad atti eroici di soldati ma anche di molti civili che vogliono resistere per il bene di Roma; e tutto ciò mi dà la forza di andare avanti e di continuare a combattere. […]

(e conclude) Anche se domani non verrò ricordato come Garibaldi o Mameli, mi basterà avere la certezza di averci provato, di aver combattuto fianco a fianco con i miei compagni perché ogni uomo che morirà in battaglia sarà per sempre un eroe degno e coraggioso per aver sacrificato la sua vita per la propria Patria”.

 

 ISTITUTO G.G. BELLI – II B

 Selezionati: Caterina Agresta, Massimo Deb, Diana di Giannantonio, Leo Antonino Mannino, Francesco Pignataro.

 

3° CLASSIFICATO – LEO ANTONINO MANNINO

“Come sai il giornale parlerà proprio della nostra Repubblica e, libertà di stampa o no, devi sempre sottolineare come Pio IX ci abbia tolto i nostri diritti e la nostra indipendenza. Chi lo sa, magari un giorno questo giornale ispirerà le nuove generazioni ad un alto concetto di democrazia, uno stato più unito e libero con una grande Costituzione”.

 

2° CLASSIFICATO – DIANA DI GIANNANTONIO

“I Francesi hanno violato l’accordo di pace e da poche ore siamo sotto attacco: si sentono i rombi di cannone dal Gianicolo e i bagliori si riflettono sul Tevere. Non ho nessuna voglia di stare nelle retrovie e di assistere i feriti e preparare le munizioni; penso che anche una donna possa andare in prima linea e combattere per Roma e la Repubblica”.

1° CLASSIFICATO – FRANCESCO PIGNATARO (Corsivo)

“Ormai sono le dieci di sera circa e i più grandi si sono messi ad un tavolo a giocare a carte e bere, mentre noi ragazzi stiamo sopra Porta San Pancrazio e ogni tanto buttiamo un occhio per controllare che non ci sia nessuno, nel fra tempo scriviamo lettere da mandare ai nostri parenti, come questa, oppure guardiamo il panorama, che oggi è splendido più che mai: le stelle brillano alte nel cielo, le cicale cantano e la luna piena osserva da lassù. Mentre guardavo il panorama mi si è avvicinato il compagno Mameli e, sapendo che sono un pianista, mi ha chiesto un consiglio per un inno che sta scrivendo, l’inno per la nostra Repubblica”.

 

Relazione di Leo Antonino Mannino e Letizia Anastasi sulla gita della 2b al

Museo garibaldino della repubblica romana…

 Il 30/03/2023 di giovedì la classe 2b (la mia classe) partì alle 9:00 di mattina dall’istituto Mordini per dirigersi alla fermata dell’autobus ed aspettare il 280. L’autobus ci avrebbe portato a Trastevere da dove saremmo saliti al colle Gianicolo lasciandoci in delle stradine deserte. Poi seguendo la via di San Pancrazio saremo giunti dinnanzi delle scale altissime. Dopo averle superate, distrutti, ci ritrovammo davanti ad un panorama favoloso, dove si vedeva tutta Roma. Poi arrivammo a viale Belvedere Niccolò Scatoli e trovammo una fontana (Acqua Paola) con varie scritte latine che citavano anche il papa. Poi attraversammo via Giacomo Medici uno dei territori più famosi come campo di battaglia con le guerre contro i Francesi. Subito dopo facemmo anche la via di Angelo Maria in cui passammo davanti al quartier generale di Giuseppe Garibaldi. Dopo una sosta seguimmo via Giuseppe Garibaldi per arrivare davanti a Porta San Pancrazio, un arco dove si trova il “museo Garibaldino della repubblica romana” però aspettammo un po’ perché apriva solo alle 10:00. Ci avvicinammo e tre guide ci accolsero, facendoci entrare dall’entrata di dietro.  La porta è  un arco a tutto sesto con delle colonne d’ordine ionico: all’epoca era una delle entrate principali a Roma.

Sopra esso c’è una scritta che dice: “Pius IX Pontifex Maximus sacri principatus anno X”. Tra queste tre guide c’erano Paolo che è il presidente dell’associazione garibaldina, Monica, che ne è la segretaria e Stefano, uno dei soci. Ci dissero che quello che stavamo per vedere sarebbe stato l’evento più importante del Risorgimento italiano. Prima della rivoluzione del 1849, c’era lo stato pontificio da 1083 anni. Le guide ci dissero di ricordarci che oggi siamo cittadini perché nel 9 febbraio 1849 le persone passarono da sudditi a cittadini e nacque una costituzione. Significa che non c’è più uno a comandare e a scegliere per il popolo, ma tutto il popolo sceglie per sé, quindi una democrazia. La gente ai tempi della repubblica romana si scriveva sempre le lettere cominciando con “Caro cittadino…”

E per ricordare che questo modo di vivere non è scontato, ogni anno l’associazione garibaldina organizza un concorso a cui anche i giovani partecipano dove devi immedesimarti in un cittadino di quel periodo e scrivere una lettera ad un altro cittadino che può essere anche un tuo amico. Sottoforma di tema ovviamente… Se vinci il concorso vinci anche un libro, un dépliant sulla costituzione e la repubblica e una medaglia. Le guide ci tengono a farci notare che quello che si fa nel passato si ripercuote sul futuro e che per noi il fatto che siamo liberi non deve essere scontato.

Ci dissero che la repubblica romana essendo nata 174 anni fa era al tempo dei nostri trisavoli e che alla rivoluzione parteciparono anche minorenni dell’età nostra, quindi immagino che quest’ evento fosse davvero importante per i cittadini di Roma.

La rivoluzione, infatti, serviva apposta perché con l’arrivo della repubblica romana si sarebbe creata la costituzione che è l’insieme delle leggi che oggi ci rende liberi. Sappiamo anche che quella antica  costituzione ispira la nuova di oggi. Dopo la spiegazione di questi tre signori arrivò un’altra guida di nome Iacopo che facendoci entrare all’interno del museo cominciò a spiegarci come nasce la nostra costituzione e la Repubblica romana.

Iacopo cominciò parlandoci del congresso di Vienna (1815) cioè della Restaurazione dei poteri dei sovrani in tutta Europa. In quel periodo i re avevano un potere assoluto e nulla poteva contraddire la loro parola. Lì l’Italia si poteva dire che non esisteva, ma che c’erano vari regni come il ducato di Sardegna o il regno di Napoli ecc.

 

 

Comunque, tra i più importanti c’era lo Stato della chiesa, in Italia-centrale, che aveva come capoluogo Roma e lì risiedeva il papa che a quel tempo non era considerato solo il punto di riferimento maggiore della chiesa cattolica, ma anche un re indiscusso. Si poteva quindi dire che aveva un potere universale cioè quello spirituale sia quello temporale, ma questo al popolo di Roma non andava molto bene.

Molto presto però in tutta Europa nel 1848 ci fu una grande svolta e cominciarono rivoluzioni dappertutto. In Francia nacque una repubblica e si divisero i che conosciamo oggi: legislativo, esecutivo e giudiziario.                                                                                                                                               

In Italia invece (a Milano) cominciarono le guerre di indipendenza in cui gli italiani si opponevano al governo degli austriaci. Fu una grande rivoluzione, ma gli italiani, in particolare i milanesi, persero comunque e l’Italia fu rioccupata. Anche se questo si sarebbe ripercosso sull’intero Stato della chiesa…

Dopo Iacopo ci fece salire delle scale e poi entrammo in una stanza molto buia dove su uno schermo comparse l’immagine di un uomo che recitava il ruolo Angelo Brunetti detto anche Ciceruacchio, grande uomo che cercò di rivoluzionare il governo di Roma a discapito dei poteri del papa. Iniziò raccontandoci di quanto si fidava del papa appena salito sul trono, Pio IX (che compare anche sulla scritta all’inizio del museo). Quest’ultimo assecondava tutte le sue richieste e quelle del popolo romano, ma lo faceva solo allo scopo di ingraziarseli. La mossa che cambiò tutto fu quando il papa si oppose dal partecipare alle guerre di indipendenza e senza il suo aiuto l’Italia non riuscì a vincerle. Perché non partecipò alle guerre di indipendenza? La risposta è molto semplice: gli austriaci erano legati dalla religione e lui li considerava dei compagni in più. Se avesse partecipato alle guerre d’indipendenza non li avrebbe più avuti come alleati. In più questa rivoluzione mirava a distruggere quello che lo Stato della chiesa aveva costruito.

Ciceruacchio nel video ricorda anche la sua tragica fine: dopo la fine della Repubblica romana lui cercò di raggiungere Venezia ma fu tradito da altri italiani. Per colpa dei traditori e del papa giovani e maggiorenni (fra cui suo figlio) morirono ingiustamente.

Il video si concluse dicendo che dovremmo essere grati della vita che ci hanno dato sacrificandosi e di non oltraggiare le statue dei grandi uomini che hanno combattuto per noi e per i nostri diritti.

Dopo Iacopo ci parlò della storia di Pio IX che salì al potere nel 1846. Lui prima di diventare papa era il cardinale Giovanni Mastai Ferretti. Diede tante speranze allo Stato della chiesa assecondandoli continuamente (a quel tempo il papa risiedeva nel Quirinale, dove adesso risiede il presidente della repubblica). Ciceruacchio si fidava cecamente di lui, per ogni controriforma che faceva Pio IX, Ciceruacchio organizzava un grande banchetto in tutta Roma per festeggiare.

Ciò che fece arrabbiare il popolo fu che nel 1848 durante le guerre di indipendenza, Pio IX proclamò “L’allocuzione”, che diceva che i cattolici non potevano fare in nessun modo la guerra agli austriaci, così facendo sembrare che infrangessero qualche legge a ribellarsi, mandando così a morire molta gente.

Da quel momento tutti cominciarono a odiare Pio IX per quello che ha fatto e come segno di sfiducia nel palazzo della Cancelleria ammazzarono un ministro (Pellegrino Rossi) appena nominato per prendere decisioni assieme al papa, che in quel periodo aveva paura di subire rivolte. Dopo questo atto, il papa terrorizzato scappò da Roma e andò a rifugiarsi in degli altri paesi alleati. Ora che il popolo romano era senza un capo supremo come il papa, si sarebbe dovuto riorganizzare e scegliere per voto di maggioranza quale governo avrebbero dovuto approcciare.

Si svolsero delle elezioni estremamente democratiche per l’epoca, perché a suffragio universale maschile: si elesse un’assemblea costituente che scelse un governo democratico e da lì nacque una delle prime repubbliche democratiche.

Si pensava che finalmente Roma sarebbe continuata ad essere la repubblica romana che conosciamo ma in realtà, era solo l’inizio…

Nel frattempo, il papa si era rifugiato a Gaeta ed era sempre più determinato a voler riconquistare il suo trono. Così chiamò gli eserciti cattolici più forti a sua disposizione, tra i più importanti c’era “la Francia” che in quel momento era anche essa una repubblica ed era considerata lo stato più forte del mondo di quei secoli. Una nuova guerra stava per cominciare e gli italiani da soli non avevano un briciolo di speranza. Decisero così di chiamare alcuni uomini per preparali a questa grande battaglia. Il primo che chiamano era Mazzini uno dei più grandi padri fondatori della Repubblica, chiamandolo all’appello con un telegramma di tre sole parole che dicevano: “Roma, Repubblica, venite” e lui arrivò senza indugio. Poi decisero di formare un triumvirato composta da: Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Andrea Armellini. Questo triumvirato era stato creato apposta per proteggere la repubblica romana. Infine chiamarono pure il grande Giuseppe Garibaldi detto anche “L’eroe dei due mondi” per aver partecipato alle guerre di indipendenza a Milano e per aver portato la repubblica anche in sud-America. Arrivò con un immenso numero di garibaldini a Roma, (I Garibaldini erano i seguaci sudamericani di Giuseppe Garibaldi) pronto a ricacciare i Francesi o qualunque altri soldati che si sarebbero opposti alla Repubblica romana.

Il 30 aprile 1849 i Francesi sbarcarono sulla costa di Civitavecchia e prima della battaglia, gli italiani lasciarono sul confine l’articolo 5 della repubblica francese che diceva che gli stati repubblicani non dovevano farsi la guerra tra loro. I francesi non li ascoltarono e dissero che questo qui era un trucchetto perché gli italiani avevano paura di combattere.

La battaglia cominciò e le giubbe rosse si fecero valere fino all’ultimo (le giubbe rosse era il modo in cui veniva chiamato l’esercito romano repubblicano perché le loro divise rosse servivano a nascondere il sangue) vincendo su porta Pamphili e riuscendo a cacciare l’esercito francese fino in mare. Garibaldi era intenzionato a ricacciarli fino al largo, ma Mazzini lo pregò di fermarsi, dicendo che avrebbero dovuto combattere solo per la patria e non per distruggere gli stati nemici. Garibaldi era infuriato e nel frattempo Mazzini stava instaurando delle trattive speranzoso di interrompere la guerra, ma riuscì solo a guadagnarsi una tregua fino all’arrivo di giugno. (Quella sarebbe stata una delle poche battaglie conquistate dalla repubblica romana e l’unica possibilità per sconfiggere i francesi)

Durante la tregua però i Francesi ne approfittano per far arrivare tutto l’esercito così da essere al completo e la notte prima che la tregua si concludesse fecero breccia in delle mura e assalirono i confini romani.

Finita l’introduzione alla guerra della Repubblica romana ci spostammo in una sala 3 D per poter approfondire l’argomento…

Entrammo nella sala e ci venne mostrato una riproduzione frontale di quel secolo di Roma, tutta mezza distrutta: con le case che andavano a fuoco e il fumo che copriva il sole nel cielo.

I francesi continuavano a prendersi sempre più territori appartenenti alla Repubblica romana.

E arrivarono al 22 giugno che l’esercito romano si era rinchiuso dentro un piccolo territorio.

In quel momento le infermerie erano piene tra cui sul letto di morte si trovava Goffredo Mameli che creò l’inno di battaglia che poi è stato scelto come inno nazionale italiano. Era stato colpito da una pistola alla gamba e stava per morire di cancrena. Tra le braccia di un’infermiera morì, cantando le ultime parole dell’inno italiano.

ll 30 giugno 1849 la Francia estirpò la Repubblica romana e si tornò allo Stato della chiesa.

Dopo aver concluso la spiegazione della riconquista francese nei confronti dei territori dello Stato della chiesa, Iacopo ci parlò un po’ di più dello stato psicologico dei romani durante la guerra e fece degli aneddoti sulla spedizione dei Mille (1860) in cui Garibaldi in Sicilia con 1000 garibaldini al suo fianco.

Disse anche che suo figlio Ricciotti Garibaldi fu molto simile a suo padre, soprattutto per il carattere. E che sua moglie quando era malata e incinta rimase accanto a suo marito fino alla morte.

Anita Garibaldi fu una delle donne più importanti nella storia dell’Italia gli fu pure dedicato un posto “Viale Anita Garibaldi”.

In fine dopo averci fatto vedere vestiti manufatti e dipinti risalenti all’epoca delle guerre a Roma uscimmo dal museo e andammo assieme alle guide dell’associazione a visitare alcuni luoghi di battaglia che fecero la storia in questa guerra…

Subito dopo entrammo a Villa Pamphilj in una piazzetta pratosa che si chiama via largo 3 Giugno 1849. Questa data è proprio quella in cui da una delle entrate di Roma i Francesi fecero breccia tra le mura e in un solo giorno eliminarono più di mille persone, tra cui maggiorenni e minorenni. Dopo averci parlato di questa carneficina orribile, fecero leggere ad alta voce ad uno dei miei compagni delle frasi scritte e dette da Mazzini: dicevano che la patria era un pensiero d’amore che unisce le persone di quello stesso territorio che collaborano per uno scopo comune. Le guide ci fanno subito notare come era importante che per la prima volta un politico parlava d’amore al popolo. Ora che me ne rendo conto non avevo mai sentito parlare d’amore da parte di un politico al telegiornale.

Ci ricordano anche che nel frattempo che i garibaldini respingevano i francesi a Civitavecchia, c’erano i Borboni che attaccavano da sud-ovest. Superammo la piazzetta e attraversammo viale del battaglione della strage (stesso luogo di battaglia) e poi arrivammo a piazza Aurelio dove si trovava l’arco di Trionfo di Pio IX (ovviamente è stato pure un po’ restaurato), detto anche Arco dei quattro venti.

Questo era proprio il luogo in cui i francesi hanno violato il patto con Mazzini e hanno fatto breccia nelle mura da questa entrata di Roma. Questo è anche lo stesso posto in cui hanno ferito Goffredo Mameli (a 21 anni) e il 3 giugno morì. Diventò l’arco di trionfo alla fine della guerra quando fu ricostruito in onore di Pio IX e della sua vittoria (arco a sesto acuto). Pio IX, dopo quello che ha fatto fu pure recentemente beatificato da Giovanni Paolo II. Infatti, le guide ci tengono anche a ricordarci che non sempre le persone cattive hanno quello che si meritano, ma a volte nessuno dice niente.

Dopo ci spostammo completamente di posto e andammo a vedere una statua di bronzo di Ciceruacchio con suo figlio accanto (li fa vedere tutta la camicia sbottonata come senso di libertà del cittadino).

Subito dopo c’era un prato con un’altra statua bronzea: qui invece era rappresentato un bambino in ginocchio. Era un simbolo dedicato a tutti i ragazzi anche della nostra età che hanno dato la vita per i diritti che abbiamo oggi…

In fine ripassiamo davanti al quartier generale di Garibaldi accanto a Villa Spada, dove fu ucciso Luciano Manara e un suo bersagliere racconta in prima persona su una lettera come vede il suo comandante essere ucciso. Mentre all’esterno c’era il caos, nel quartier generale di Garibaldi Luciano Manara si affaccia alla finestra per perlustrare la zona, in quello stesso momento una pallottola gli trapassò il ventre e ad un passo dalla morte mise l’anello di fidanzamento all’anulare del compagno e gli chiese di dire a sua moglie di perdonarlo di aver allevato i suoi figli nell’amor della patria. Dopo questa commovente lettera abbiamo rifatto il percorso inverso della partenza e abbiamo ripreso l’autobus tornando a scuola mezzora prima che finisse…

Mi sono trovato molto bene al museo Garibaldino della Repubblica romana e mi sono anche avvantaggiato con degli argomenti che studierò poi in storia.

Io e la compagna Letizia ci siamo divisi i compiti: io scrivevo e Letizia si è occupata dei disegni.   

     

Nella ricorrenza del 173° anniversario della Proclamazione della Repubblica Romana, riportiamo l’incipit dell’articolo apparso su avantionline.it, a firma del socio Prof. Carlo Felici.

 

E’ la storia di una gestazione e di un parto doloroso, durata giusto circa nove mesi, dal novembre del 1848 al luglio del 1849. Si pensava allora che, dopo la sconfitta e la morte di chi l’aveva partorita, fosse purtroppo nata una creatura morta, invece essa seppe “risorgere” circa cento anni dopo, per rinascere concretamente, vivere e renderci liberi oggi, anche se tuttora forse immeritatamente, pensando sia ai sacrifici di ormai più di 170 anni fa e a quelli di quasi 80 anni fa, nel primo e nel secondo Risorgimento. Nacque così nostra Costituzione, promulgata nel 1948, che ebbe proprio come antenata diretta quella della Repubblica Romana del 1849, entrata in vigore solo per un disperato, fulgido e glorioso giorno di vita.

Perché tornare a quegli eventi, che ci appaiono ormai remoti e che solo recentemente sono stati riportati alla memoria da numerose pubblicazioni? Non certo per competere con le varie interpretazioni storiografiche, giacché il taglio di queste storie a puntate resta sempre divulgativo, anche se in maniera tale da smentire troppe facili acquisizioni correnti, troppe vulgate di comodo e politicamente fin troppo corrette.

La storia della Repubblica Romana fu a lungo politicamente scorrettissima, inizialmente perché metteva in discussione il valore di una monarchia che si era imposta con guerre di conquista e con occupazioni tese allo sfruttamento, specialmente delle zone e dei popoli meridionali del nostro Paese, e in seguito perché tali valori erano diversi sia rispetto a quelli della tradizione cattolica che a quella comunista. Quello che si affermò infatti nella Costituzione della Repubblica Romana del 1849, anche se i suoi protagonisti, come Manara non erano tutti repubblicani ma monarchici, fu un sostanziale liberal-socialismo, una democrazia repubblicana socialmente molto avanzata per allora e, sotto certi aspetti, anche per oggi, perché fondamentalmente basata sull’amore di una Patria Indipendente, ma non sovranista, cioè non tale da volersi affermare solo con una autonomia monetaria, con la xenofobia o con l’isolamento rispetto ad altre nazioni ed altri popoli europei. Era allora, piuttosto, una Giovane Italia che voleva essere ed esistere in una Giovane Europa, quella che Mazzini volle fosse esaltata, fino all’estremo sacrificio, con l’esempio della Repubblica Romana. Per costruirla arrivarono patrioti da tutta Italia e persino da varie parti d’Europa e del mondo.

 

Per leggere l’intero articolo:

http://www.avantionline.it/i-bastioni-della-patria-la-repubblica-romana-e-noi/

Con questa intervista datata ottobre-dicembre 1991, Leandro Mais, socio onorario della “Garibaldini per l’Italia”, ci consegna questo piccolo ma significativo documento sulla nascita della sua collezione e sulla figura di Giuseppe Garibaldi, che avevamo già avuto modo di conoscere attraverso la pubblicazione delle lettere autografe dell’Eroe e gli articoli pubblicati in questo sito a partire dall’11 febbraio 2015. Il fallito progetto di donazione dell’intera collezione Mais al Comune di Roma, denominato “Museo Garibaldi”, il cui materiale avrebbe dovuto essere collocato all’interno di Villa Pamphili, nell’edificio “Arco dei quattro venti”, prevedeva una prima sala del percorso museale dedicata proprio alla nascita della collezione Mais. Motivazioni e concetti che ritroviamo qui, espressi in forma di intervista.

P.M.

Intervista della Presidente del Centro letterario “Luigi Capuana” a Leandro Mais, studioso e collezionista di materiale garibaldino.

Domanda: “Come e quando iniziò in Lei la passione per Garibaldi?”

 Sono grato innanzitutto alla Prof. Ada Capuana, Presidente del Centro letterario “Luigi Capuana”, per avermi dato l’opportunità di poter narrare ai lettori di “A-Z” l’origine di questa mia passione per il grande Eroe. Premetto che ho sempre coltivato, fin da ragazzo, almeno tre interessi: I francobolli, l’arte, la storia. Passate le prime esperienze dilettantistiche della prima adolescenza, verso i 16 anni iniziai, con metodo e costanza, la ricerca per la raccolta di collezioni tematiche sull’arte. Ciò mi portò ad unire in una, due passioni, e tanto mi ci dedicai che acquisii in questo campo una buona specializzazione. Partecipai quindi a diverse mostre e fui invitato a scrivere (su riviste filateliche specializzate) vari articoli tratti da queste tematiche artistiche (vere e proprie monografie filateliche sui Musei e sugli artisti). Per i “non addetti ai lavori” vorrei chiarire che la ricerca su ogni francobollo a soggetto artistico richiede il reperimento di svariati dati: autore, titolo dell’opera, anno d’esecuzione, materiale d’esecuzione, dimensioni, museo dove è conservato e per le opere più note anche una piccola cronistoria. Questa “scheda artistica” viene completata con il relativo numero di catalogo filatelico, attraverso il quale il collezionista può richiedere il francobollo stesso.

Tredici anni fa mi balenò quest’idea improvvisa: realizzare (sempre con i francobolli) una tematica storica sulla vita di Garibaldi. Forse per un altro filatelico la cosa si sarebbe risolta senza ulteriori…”complicazioni”, ma così non fu per il sottoscritto: non solo queste perdurano tutt’ora, ma si sono allargate a…macchia d’olio. Evidentemente avevo “smosso”, incoscientemente, qualcosa che “covava” (e chissà da quando!) dentro il mio animo. Proprio così perché già nell’iniziare quel lavoro di ricerca, ovvero di “schedatura”, non mi accontentavo delle notizie dell’enciclopedia ma cominciai a comprare libri, riviste, giornali e tante altre cose. Poi, per controllare l’esattezza di alcune notizie, iniziai la ricerca delle “fonti” nelle Biblioteche Storiche e nei Musei del Risorgimento. Cominciai così a conoscere diverse persone “qualificate” nel ramo storico-garibaldino ed anche molti appassionati collezionisti, che mi dischiusero nuovi orizzonti sulla conoscenza di questa grande personalità umana, oltre che eroica (purtroppo sconosciuta dai più forse a causa del “mito” con cui fu avvolto, ancora Lui vivente). Non solo però andava crescendo la tematica “VITA DI GARIBALDI” ma a seguito degli acquisti continui del “materiale di ricerca” si era formata una vera e propria Collezione Garibaldina.

Oggi, a distanza di 13 anni (ma molti amici si meravigliano e dicono che sono veramente pochi, in confronto alla “quantità” e “qualità” del materiale raccolto) questa Collezione Garibaldina comprende i seguenti rami: Libri (numeri unici, cataloghi di mostre, riviste, giornali, ecc..); Litografie e Fotografie d’epoca, Autografi, Medaglie (Medaglioni, Distintivi, ecc), Cartoline, Manifesti, Fotografie di monumenti e lapidi, Busti di materiale diverso, Soldatini (piombo, carta, ecc.), Oggettistica varia e curiosità. Mia moglie dice, con un certo orgoglio spiritoso, che vive non in una casa…ma in un Museo!

Domanda: “Perché e cosa lo ha appassionato dunque, della figura dell’Eroe?”

 Seguitando la ricerca di notizie (e di materiale) su questa mitica personalità, si andava delineando sempre più in me la conoscenza del vero, reale Garibaldi: l’uomo Garibaldi. Ecco, la “passione” per Garibaldi nacque in me scoprendo l’uomo-Garibaldi, e che più che una passione è stata una semplice … “attrazione”, maturata lentamente nel tempo e sbocciata casualmente 13 anni fa, sotto forma di quella collezione tematica (Ancora una volta oggi dico: grazie francobolli!). Ciò premesso, posso affermare che il mio “carattere” è stato “attratto” da una personalità simile, ma naturalmente più potente: Giuseppe Garibaldi.

Domanda: “Quali sarebbero le “doti” dell’uomo-Garibaldi che lo hanno “attratto” perché sente più vicine alle sue?”

 Molti penseranno al fluido irresistibile dell’”Eroe invincibile” o del “Gran Fascinatore” di uomini e soprattutto di tante donne o del “carismatico Duce dei Mille” che ancora una volta ha colpito il cuore di un suo ingenuo ammiratore del XX secolo. No, queste sono per me le caratteristiche (o doti) più appariscenti della Sua natura, ovvero della Sua personalità; quelle cioé che hanno creato, prima il Suo “mito” (attraverso le poesie, gli scritti, le pitture, le sculture), poi il Suo “crepuscolo”, ovvero la conoscenza dell’uomo-Garibaldi, la negazione cioè della Sua “vera natura”, perché di Lui oggi, sembra impossibile a crederlo, tutto è menzogna in quanto tutto è distorto e dunque falsato. Secondo me, quindi, le “grandi doti” dell’uomo-Garibaldi che mi hanno particolarmente “attratto”, sono: la giustizia e la libertà combattute in favore di tutti gli uomini del mondo fino al sacrificio personale; l’onestà e l’umiltà anch’esse innalzate religiosamente a voto civile che fanno di Lui la reincarnazione di un altro grande uomo: Francesco d’Assisi.

Domanda: “Di queste belle virtù dell’Eroe, cosa rimane negli uomini di oggi?”

 Penso e con tristezza affermo che negli uomini di oggi, del Suo messaggio civile (e patriottico) che veniva definito “la mistica garibaldina”, non è rimasto più nulla. Vorrei ricordare ancora una volta che Garibaldi fu uomo di grandi ma difficili ideali: la libertà, la democrazia, l’onestà e l’umiltà. Odiò tutto ciò che opprime e limita: la tirannia, la menzogna, il potere e la ricchezza. Ecco perché ripulse tutti I partiti, che limitano le idee degli uomini dividendoli in contrasti ideologici; ma ciò spiega pure perché tutti i partiti si sono – dopo la Sua morte – riconosciuti in Lui, contendendoselo (e ciò tutti sanno che dura fino ai nostri giorni). Qualcuno poi afferma fortemente – ma solo con le labbra – di essere un Suo seguace (oltre che ammiratore), cercando di far combaciare certe rassomiglianze di fatti o di parole. Ma questo è un “gioco” antico per attrarre le “masse”, che si ripete in continuazione – cambiando “colore”- dopo la morte del Grande. Tutti abbiamo a mente (perché é storia che abbiamo vissuto, noi oltre il mezzo secolo) quante volte l’Eroe è stato innalzato ad ideale di ideologie politiche. L’adamantina purezza dei Suoi ideali e delle Sue doti sono serviti a molti per trincerarsi dietro questo scudo invincibile e meraviglioso, illudendosi di sfruttarlo come un talismano personale! Di tutti costoro (in un modo o in altro) siamo stati testimoni della loro fine…ingloriosa: solo Lui, l’uomo-Garibaldi con I Suoi grandi ideali rimane nella sua immacolata purezza, incontaminato esempio a tutta l’Umanità onesta! Sarà dunque perché il sottoscritto, fin da ragazzo, ha sempre “navigato contro corrente” lottando onestamente e aspramente contro le seduzioni facili ma effimere della vita, che l’Eroe, anzi l’uomo-Garibaldi gli si é “rivelato” ad un tratto “attraendolo”, come Colui che da tempo cercava…

Oggi, attraverso I tanti “rami” del mio piccolo museo garibaldino, posso sinceramente affermare ai lettori e agli amici tutti, che non solo soddisfo un piacere culturale-collezionistico come molti, ma soprattutto sto ancora imparando con gioia quanto era e quanto ancora è grande l’uomo-Garibaldi.

 Ottobre-Dicembre 1991

Leandro Mais


Questa pubblicazione a firma di Leandro Mais (apparsa su “Almanacco Maddalenino-Ed. Paolo Sorba-Numero unico-Bicentenario garibaldino 1807-2007″), in cui è riportata una lettera scritta dal Medico e Garibaldino Enrico Albanese e facente parte della collezione dello stesso Mais, costituisce per tutti gli estimatori del Risorgimento e dell’epopea garibaldina una preziosa, duplice testimonianza: da un lato il forte legame che univa Garibaldi ai Garibaldini, come appartenenti a  un’unica, grande famiglia; dall’altro, la grandezza dell’uomo che seppe rifiutare onori e ricchezze dopo aver compiuto imprese straordinarie e che, depredato dei suoi beni materiali, seppe vivere comunque con umiltà e dignità nella sua Caprera. Ringraziamo Leandro Mais per averci dato la possibilità di conoscere questa bella pagina di storia e di umanità.

p.m.

 

Gli storici dell’epopea garibaldina e risorgimentale non hanno dato risalto dovuto alla figura di Enrico Albanese che viene ricordato, in particolare, per essere stato uno dei medici di Garibaldi. E’ opportuno dare  un breve cenno  dei più salienti episodi della vita di questa bella figura di patriota e del come e del perché si legò per la vita all’eroe, con un sentimento di ammirazione infinita che il duce dei Mille ricambiò fino alla morte.

Enrico Albanese nacque a Palermo il 12 marzo 1834 e da giovane medico partecipò, salvandosi fortunosamente, agli sfortunati moti  della Gancia (aprile 1860). Purtroppo non riuscì a partire con i Mille da Quarto ma li raggiunse nella sua Palermo, ormai libera. Come medico e come soldato fu lodato dallo stesso Garibaldi per il suo eroico comportamento a Milazzo, per cui ottenne una medaglia d’argento. Ma l’episodio che legherà il Generale al medico-soldato fu quello infausto e sfortunato, ma glorioso, di Aspromonte. Quando il 29 agosto Garibaldi cadde ferito, tra i primi a soccorrerlo  furono Enrico Cairoli, Francesco Nullo e proprio Enrico Albanese. Quest’ultimo, su  ordine dello stesso Garibaldi, iniziò l’operazione per estrarre il proiettile. Purtroppo l’intervento del vecchio dottore Ripari (Capo dell’ambulanza garibaldina) bloccò il giusto e tempestivo intervento  del giovane chirurgo, condannando l’Eroe a quasi tre mesi di dolori col rischio dell’amputazione del piede destro.

Durante la prigionia di Garibaldi al Varignano (La Spezia), l’Albanese fu scelto, oltre che come medico curante dell’eroe (insieme al Ripari e al Basile), anche come segretario. Dal Varignano, interessantissime  sono  le lettere scritte alla futura moglie Emilia Ginami e quella alle figlie del Duca Della Verdura (sindaco di Palermo), con la minuziosa  descrizione della stanza e degli arredi dove giaceva Garibaldi ferito. Dopo l’estrazione della “regia palla” eseguita a Pisa dal professor  Zannetti, Garibaldi tornò a Caprera accompagnato dall’Albanese e dal Basile. 

Enrico Albanese non lascerà Caprera – nonostante i suoi impegni professionali in Palermo – se non quando il “suo Generale” tornerà a reggersi  in piedi, seppure sulle stampelle  (agosto 1863). L’Eroe, commosso dalle amorevoli cure dell’amico medico gli donò, al momento del saluto, la Camicia Rossa1 che egli indossava quel tragico 29 agosto. Solo allora l’Albanese poté chiudere il Diario della ferita di Garibaldi ad Aspromonte, che aveva tenuto giornalmente dalla data del ferimento2. Seguirono le altre Campagne garibaldine:Tirolo (1866) Mentana (1867) che videro sempre la presenza dell’ottimo volontario e dell’infaticabile medico. Ormai il rapporto di amicizia con Garibaldi era divenuto talmente forte che si poteva paragonare all’affetto di un  figlio verso il padre. Naturalmente, quando gli impegni della professione glielo consentivano, l’Albanese si presentava a Caprera dal “suo Generale” e trascorreva bellissimi periodi insieme ai fidi compagni d’armi che costituivano la gioiosa compagnia del “Solitario di Caprera”. Un fatto, poco noto, è l’amore per la natura che l’Albanese condivideva con Garibaldi. Fra le tante testimonianze bellissime dell’archivio Albanese (lettere, foto, manifesti, documenti ecc.) vi è, infatti, un quaderno rilegato con la scritta in oro sulla copertina: CAPRERA3. In ogni  pagina, l’Albanese ha posto una varietà di fiori e di piante, segnandovi  il relativo nome. Cosa commovente, se si pensa che egli non era botanico, ma medico chirurgo! Quel quaderno costituiva per lui un tenero ricordo della bellezza di quest’isola ormai divenuta famosa.

La serena e idilliaca visione di Caprera sfumò il 27 luglio 1874 quando Albanese, chiamato urgentemente dal Generale, ritornò nell’isola dalla quale mancava da sette anni. Lo spettacolo che gli si presentò era talmente tragico da lasciarlo fortemente colpito. Egli trasmise  questo turbamento, con parole emozionate fino al pianto, in una lettera inviata all’amata moglie Emilia (in essa, tra l’altro mise, in piego di carta velina, una ciocca di capelli con la scritta “capelli e barba del Generale, tagliati il 27 luglio 1874”. Anche questo cimelio è giunto intatto insieme alla lettera).

  Caprera, 27 luglio ’74 – sera

   Mia cara Milia,

  L’uomo propone e Dio dispone : ecco l’adagio che mi viene sulle labbra guardando la luna e il mare quieto e tranquillo. Ti avea promesso di accompagnarti  ai bagni la prima sera di luna piena ed invece sono qui in Caprera, chi di noi due poteva pensarlo allora? Sono le 8 ½  – ognuno si è ritirato nella propria stanza, ed io qui solo pria di cercare riposo sento il bisogno di restare con te un poco: è quattro giorni che sono via di Palermo e nella corsa diabolica  accompagnata dalla bufera non ebbi un momento di tempo  per restare con te a far quattro chiacchiere. Il giorno  di venerdì fino a sera il tempo fu buono, la notte si fece cattivo e ci accompagnò così fino a Civitavecchia dove arrivammo  alle ore 2 p. m. del sabato per ripartire subito alle 4. – All’uscire di Civitavecchia i cavalloni venivano su orribilissimi, ed in breve fummo presi da una vera bufera, grandine, lampi, pioggia, vento che parea il finimondo. E questo tempo durò fino a Livorno dove arrivammo con gran ritardo, sicchè ebbi appena il tempo di trasbordare a bordo la “Lombardia” che era pronto a partire per Maddalena. Anche il viaggio per la Maddalena fu infelice, ma sotto la Corsica al riparo dai venti, il mare era più calmo e potei restare per qualche ora sulla coperta. Al mal di mare questa volta si unì pure un fiero ed ostinato dolore di ventre che mi fece scalare la pancia di 4 dita. Alle ore 5 a. m. del 27 siamo alla Maddalena. Un barcaiolo ignoto dalla barba nera si presenta a me, e si mette ai miei ordini, comandato come era dal Generale. Scendo nella sua piccola barchetta e gli chiedo ancora del Generale. Mi risponde secco – Ha la moglie ammalata. Il vento non era finito si fece vela – ed in meno di mezz’ora siamo alla puntarella dove discendo. Sono in Caprera dopo 7 anni di assenza – Tutto è silenzio. Il sole mette fuori il naso dal Teggiolone, mentre io metto il piede nell’isola abbandonata e deserta. Oh! Come tutto è mutato; quei piccoli campi preparati con tanti stenti e con tanto amore dieci anni addietro, ora sono nuovamente pieni di erbe selvatiche, più si va avanti  e più la campagna è deserta. Incontro una vecchia cavalla magra – è la Marsala poi due, tre, quattro, otto vacche magrissime – finalmente son presso alla casa le finestre  son tutte chiuse a vederla sembra un a tomba, faccio ancora pochi passi ed un uomo della mia statura con un bizzarro cappello in testa, con certi baffetti neri mezzi unti, con lo sguardo incerto come quello di un ebreo mi viene incontro e mi da il ben arrivato. Chi è quest’uomo – sembra un contadino  ma si dà l’aria del Maitre d’Hotel , gli rispondo con un buon giorno, e mi conduce in fino nella stanza del Generale che è ancora in letto. Il Generale ha bella  cera, esso non è più invecchiato, la barba è ancora mezzo rossiccia e i capelli sono bigi come al ’66. La fisionomia  vispa, nutrita è ancora bella, sembra quasi più giovane; mi abbraccia e mi bacia con effusione dicendomi:: “avete fatto da vero amico e non potea dubitare di voi. Vi ho fatto chiamare per la Signora”. La Signora? La Signora è Francesca la balia di Canzio. Essa è li coricata – a lato del Generale, e con essa nel letto vi è un altro bambino a 2 anni circa certo Manlio – è febbricitante da 5 giorni con sintomi un po’ gravi di bronchite – è molto magrito ma ha l’aria tanto buona, e tanto dolce che mi ispira della simpatia. Dopo un  momento entra nella stanza un’altra bambina di 7 anni, forte, robusta, con occhi castani vivacissimi mezzo nuda; è la più grande e la chiamano Clelia.

Sto un momento in stanza un po’ confuso della confusione di tutti, faccio le mie prescrizioni e vengo fuori sul piazzale; vedo Basso – Basso è diventato vecchio, ha tutta la barba bianca, mi viene incontro e ci scambiamo un forte abbraccio, come da vecchi amici. “Ebbene”, mi dice, sei qui. Hai veduto? Era per lei! Il dispaccio l’ho fatto io, ma è stato il Generale che vi ha aggiunto  la parola subito. Ora sei qui, hai veduto l’isola. Tutto abbandonato, è una fortuna se ci trovi vivi. Siamo tornati agli antichi tempi. Si vive di caccia – io ammazzo una capra selvatica per settimana e questo è il nostro pasto. Non ci sono più soldi, siamo senza provviste, nessuno ci manda più nulla – Menotti, Ricciotti e Canzio hanno tutto consumato, anco l’onore di questo povero vecchio. Ricciotti ha debiti per un milione, Menotti ha cambiali per 400 mila franchi e Canzio che aveva in deposito 160 mila lire che erano la sola ricchezza  del Generale, ce le ha mangiate. Ora il Generale scrive, riscrive e guadagna qualche cosa tanto da comprare il pane. Siamo qui, l’isola non si coltiva più – e Fontanaccia stessa è abbandonata, giacchè Lui ha le mani storte e veramente il Generale ha le mani storte dai dolori artritici , e non può lavorarvi, e perché non abbiamo come pagare un uomo per la coltura. Siamo qui soli. Caprera è ipotecata ad un inglese per 300 mila lire per coprire certi debiti di Menotti; domani possono venire a cacciarci via! Questo discorso di Basso mi agghiaccia l’animo. Povero Generale ora sì che sei veramente povero. C’erano i tuoi figli che ti hanno immiserito! Più tardi il Generale mi invita a bere il caffè con lui, e passiamo tutti nella saletta da pranzo. “Si beve il caffè d’orzo, caro Albanese, non so se vi piacerà, ma non abbiamo più caffè  neri qui a Caprera. Siamo poveri e vi adatterete a noi, non è vero?” mi dice il Generale, io ho bevuto una tazza enorme di caffè d’orzo, che mi pareva una porcheria, e che pure dissi che era buona eccellente! Finiamo di prendere questo caffè, ed andiamo in Fontanaccia. Il Generale cammina colle stampelle e l’accompagnano i due bambini, quell’uomo che venne ad incontrarmi, che seppi poi essere un vero cognato chiamarsi Antonio, ed un’altra ragazza bellina, che bada ai bambini e che è sorella della Signora. Per la strada nella discesa dell’uliveto, a sinistra, vi è una tomba di marmo bianco, piena di fiori – sulla tomba  vi è scritto Rosa Garibaldi nata nel 1859 morta nel gennaio 1871. Fontanaccia è un deserto: le viti non sono zappate, gli alberi vi sono ben cresciuti. “Riposiamo qui  all’ombre” mi dice il Generale, “non andiamo più avanti, vi è l’aranceto, non ho core di andare più in là. L’aranceto se lo vedeste, è un cimitero! E veramente tutto fontanaccia sembra un cimitero Cespugli per tutto, alberi sfrondati, viti per terra  quasi perdute.” Più tardi si va a pranzo. E’ tutta la capra che fa la festa: capra in umido con cipolla, capra stufata, capra arrosto. Io mangio con fame tutto quanto mi danno, e mi par tutto squisito; vi bevo sopra per buona fortuna un bicchiere di marsala, di quella marsala che io avevo   portato con me, ciò che non toglie per altro una pura indigestione e i dolori che son tornati più gagliardi di prima. Dopo pranzo, vaccino il bambino; poi si fa la siesta quindi vado a prendere un bagno e ricomincio sulla spiaggia a cogliere conchiglie e coralli per Manfredo. 

La sera si cena: un grosso pollo fa gli onori di casa, mal cotto del quale io non vo mangiare. Di poi  nella saletta di pranzo è un gran baccano. La Clelia va a suonare uno stonatissimo organetto, il Generale contento ne scorge nello stonamento  che il pezzo è famoso. “Lo sentite?” mi dice, “E’ il barbiere di Siviglia!” A me parea  un charivari ma finisce il pezzo  rivedo la Signora che ha la febbre molto meno, e ritorno solo nella mia stanza. La mia stanza è a primo piano sulla terrazza, quella stessa che abitammo otto anni addietro – il letto è buono e la biancheria è pulita: Meno male. Solo qui ho pianto, non credeva a tanta miseria. E penso che Caprera ai nostri tempi era ricco terreno, e questo povero uomo era allora un Re! Cara addio. E’ tardi e sono stanco orribilmente. Domani all’alba riparte il corriere  e non ho tempo di vedere ciò che ho scritto  – addio. Salutami tutti. Le sig.E  Nunan di cui specialmente le ragazze, Giannesina, la mamma grande a te a Corrado a Manfredo tanti baci, a te una stretta di core dal tuo sempre

Enrico

Il Generale ti saluta caramente.

   Albanese morì improvvisamente mentre si trovava a Napoli per un congresso medico il 5 maggio 1889. Volle, come ultimo desiderio, essere sepolto entro un’urna di granito di Caprera, proprio  come il suo Generale. Questo fatto è emblematico della “comunione d’affetti” che legò in un unico sentimento d’amore altissimo il trinomio Caprera, Garibaldi ed Enrico Albanese.

Leandro Mais

1 Oggi questo importante cimelio è conservato, insieme al altri pezzi dell’archivio Albanese, nella collezione dello scrivente

2 Anche questo   autografo   è conservato nella collezione Mais

3 Quaderno che contiene i fiori recisi raccolti dal Dottor Albanese, nel 1863, prima di lasciare Caprera

Il Brasiliano Rogério Guilherme de Oliveira ci ha scritto informandoci di aver composto una “samba” in onore di Anita Garibaldi, in occasione del  200 anniversario della nascita dell’eroina.

Pubblichiamo con piacere, con il link a fondo pagina, l’esecuzione di questa originale trovata.

Ciao! Mi chiamo Rogério Guilherme de Oliveira, vivo a Florianópolis (Santa Catarina, Brasile) dove sono nato. Fin da piccolo, ho sentito storie su Anita Garibaldi, di come era guerriera, coraggiosa, in anticipo sui tempi, motivata dall’idea della giustizia sociale.

Sono stato il direttore fondatore del Corale Helio Teixeira da Rosa, della Corte dei Conti dello Stato di Santa Carina, di cui sono funzionario dal 1994. Quest’anno sono stato invitato a partecipare al comitato organizzatore per le celebrazioni dei 65 anni di installazione della Corte e, incoraggiato a proporre eventi commemorativi, ho pensato di comporre una canzone in onore di Anita Garibaldi, che è il nome di una onorificenza da istituzione.

È stato in questo contesto che ho iniziato attenerme più profondamente alla storia della mia famosa connazionale. Tuttavia, dopo la fase di composizione, sono venuto a conoscenza del duecentesimo anniversario dalla nascita della nostra eroina. Ed in questo momento, sono lieto di invitare Lei ad ascoltare quello che è finito per diventare il mio samba dal titolo “Anita Guerreira, Heroína da Pátria Brasileira”.

Per accedere alla clip (con sottotitoli in Italiano ed Inglese), fare clic qui. Spero che le piaccia!

Grazie per la sua attenzione.

https://www.youtube.com/watch?v=nqeKNexxPNQ

L’analisi accurata dei manufatti di un determinato momento storico, siano essi artistici o meno, porta inevitabilmente a ritrovare, nelle loro rappresentazioni, notizie che possono essere aderenti alla realtà documentale o completamente fantasiose. E’ un metodo di analisi utile per conoscere la storia; metodo che Leandro Mais continua a praticare con grande passione.

IL GENERALE GARIBALDI ..VISTO DAI “CUGINI” FRANCESI

di Leandro Mais

La mia collezione garibaldina si è arricchita pochi giorni fa di un particolare pezzo, ovvero di un bronzo rappresentante una statuetta di Garibaldi in divisa da Generale del 1859 (H mm 340). L’opera poggia sopra un alto basamento (H mm 150) che reca nei quattro lati due scene con figure  e due avvenimenti con relativa data (mm.  93 x H mm. 68). Data la particolare realizzazione della scultura (che svilupperò qui appresso) chiedo questa volta ai miei cari lettori  se mi possono essere di aiuto nel chiarire certi particolari che anche a me restano poco decifrabili.

Per quanto riguarda  la figura del Generale (foto 1) reputo che sia eseguita in maniera abbastanza artistica ma non posso non segnalare il particolare – veramente di fantasia dell’autore – delle ben quattro medaglie applicate sulla destra della giacca. Ho sottolineato ciò perché, come tutti sanno, l’Eroe non portò mai nessuna decorazione, neppure quella che gli fu data in oro per la Campagna del 1859. Come curiosità ricordo che né in Italia, né all’estero, esiste un monumento di Garibaldi  con questa divisa.

L’opera risulta realizzata da un artista francese, “MACHAULT” (foto n° 2), come risulta dall’incisione nella colonnina di destra, dove l’Eroe poggia la mano sinistra su una carta geografica dell’Italia meridionale, con la scritta “CARTE / D’ ITALY” (foto n° 3).

E ora due parole sulla parte meno chiara che si nota nei quattro lati del basamento. Infatti i quattro riquadri raffigurano due scene  (senza luogo e data) e due epigrafi datate. Iniziamo con la scena posta sul davanti (foto n° 4): al centro la figura di Garibaldi (di fronte) a capo scoperto in divisa da Generale (in quanto indossa una giacca lunga e mantello); ai suoi lati due gruppi di patrioti e sullo sfondo un gruppo di palazzi. Quanto descritto non risulta ascrivibile ad alcun fatto storico.

Proseguendo a destra (foto n° 5), troviamo la scritta: “PRESA DI PALERMO / IL DI 27 MAGGIO 1860″. Continuando  nel retro (foto n° 6) vediamo questa scena: al centro un personaggio in divisa con in capo una feluca, baffi e pizzetto; alla sinistra un gruppo di Zuavi (dai caratteristici pantaloni), tra i quali uno con un foglio in mano; a destra altri Zuavi, di cui uno con fucile e l’altro con bandiera. Possiamo azzardare, dai pochi elementi caratteristici della scena, che il personaggio al centro possa essere il Re Vittorio Emanuele II, che appunto dopo la battaglia di Palestro (30-31 maggio 1859) fu nominato Caporale degli Zuavi per il suo comportamento eroico. Nell’ultimo riquadro (foto n° 7) è riportata la scritta “ANNESSIONE DELL’ITALIA /CENTRALE AL PIEMONTE / 18 E 20 MARZO 1860″.

Da quanto sopra descritto possiamo riassumere che delle due scene storiche solo una riguarda Garibaldi e che delle due scritte solo quella di Palermo riguarda l’Eroe. Quindi ringrazio anticipatamente chi troverà notizie più illuminanti.

Mi sembra interessante aggiungere alle descrizioni precedenti due opere che riguardano sempre questo tema (Garibaldi Generale). Si tratta di due litografie francesi d’epoca in cui è evidente  lo “chauvinisme” dei nostri cari “cugini” d’oltralpe. Come potete vedere il Capo delle camicie rosse è stato ritratto nella divisa da Generale anche in questi due famosi episodi del 1860: 1) “Garibaldi” -  litografia (foto n°8) (mm 455 x H mm 670) – dis. “Ferrat” scul. “E. Guvais” (Garibaldi a Calatafimi) – 2) “Victor Emmannuel et Garibaldi / devant Capoue” – Litografia (foto n° 9) (mm 455 x H mm 664) “P. Dien imp. Paris” – Editeur “Artheme  Payard” (Incontro di Teano).

Penso che questa ultima testimonianza sulla divisa del Generale nei due episodi storici del 1860 valgono a dimostrare certi preconcetti   dei nostri vicini “Galli”.   

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di Leandro Mais  

Sono passati ben  sei anni dal mio articoletto su questa medaglia (https://www.garibaldini.org/2014/10/il-cosiddetto-re-galantuomo/ ). Sono lieto di poter dare ai miei lettori un interessante giudizio storico (in quanto coevo) che si trova nelle memorie del garibaldino Francesco Zappert.  

Questo garibaldino, oltre alla Campagna del 1860, fu presente nel tragico fatto d’Aspromonte due anni dopo. In queste memorie  dal titolo “Da Palermo ad Aspromonte” (1)  nella terza puntata è riportato il brano che riporto in originale come segue :  

“…mi si fa innanzi uno sconosciuto in vesti garibaldine, azzimato con una certa civetteria militare, con un bel cappello di paglia nuovo di trinca in testa ed una lucente sciabola al fianco. Sulla camicia rossa, allora allora vestita, gli spicca quella famosa decorazione che il Municipio di Palermo (2), nell’alta e servile sua ignoranza, distribuì ai volontari del 60. A  quelli  s’ intende cui non ripugnò riceverla e che non si sentono macchiato il petto da un segno commemorativo che altro non è che una solenne menzogna. – CASA DI SAVOIA E LIBERAZIONE DELLA SICILIA! E  codesto nonsenso doveva lasciarsi a Palermo, là dove non si vide un soldato della monarchia mentre si combattevano le giornate della libertà; nella Palermo rivoluzionaria  emancipata per forze proprie, sgombrata dai suoi tiranni da pochi eroi venuti dal continente; nella Palermo di Garibaldi, dove l’amore al grand’uomo è una religione, che non riusciranno a distruggere tutte le arti dissolventi del moderatismo. Quei consiglieri municipali devono aver piegata ben basso la schiena per far omaggio alla Casa di Savoia di una conquista cui essa non prese parte. Se decisamente volevasi accennare nel bronzo la monarchia , si doveva, se mai, incidervi: LIBERAZIONE DELLA SICILIA – DONO DI GARIBALDI ALLA CASA DI SAVOIA -…”  

Lo Zappert, da vero garibaldino che era, ci rappresenta in maniera reale quanto fu il suo disprezzo nel vedere quella medaglia (che non aveva nulla di garibaldino) e che veniva mostrata con tanta spudorata ostentazione

  NOTE

1 – Vedi “Garibaldi e garibaldini” ed. Riccardo Gagliardi –Como – 1910 – Quattro fascicoli. Le memorie dello Zappert. Si intitolano :”Da Palermo ad Aspromonte” e sono divise in quattro puntate. Il riferimento a questa medaglia è nel terzo fascicolo pag, 300/301   Per notizia vedesi pure :”Aspromonte  – Il più grande delitto della monarchia”  - Rivista Popolare n. 16 -17 pag, 90/91  

2 – Lo Zappert, non sapendolo,  cita solo il Comune di Palermo mentre queste medaglie (diametro mm 32 AG – AE), per il pochissimo tempo rimasto del 1860 (circa un mese e mezzo), furono coniate anche dalle Zecche di Torino e Milano.

Il ricco calendario di eventi del 2019, nel 170° della Repubblica Romana, è solo un ricordo! Oggi siamo purtroppo costretti a celebrare l’anniversario della battaglia del 30 Aprile 1849 solo dalle pagine di questo sito. La pandemia da coronavirus non ci permette di incontrarci, abbracciarci e vivere la memoria di quei gloriosi giorni del nostro Risorgimento. Tutto ciò non ci impedisce, però, di dedicare il forzato arresto alla storia e alla cultura. Riproporremo, pertanto, alcuni brevi filmati della prima storica celebrazione del 30 Aprile a Porta Pertusa, del servizio di Rai3 sulla scomparsa del diario di Paolo Narducci, primo caduto della Repubblica Romana, e la premiazione al Sacrario dei caduti per Roma del concorso “Alberto Mori” 2019.

Inoltre, per approfondire più dettagliatamente  i fatti accaduti in quel 30 Aprile 1849, riportiamo il brano dello storico Francesco Domenico Guerrazzi tratto dall’Assedio di Roma, scritto nel 1864, e il documento del Fatto d’armi del 30 Aprile, uscito in data 5 maggio 1849.

https://www.youtube.com/watch?v=FfDWlA9oMUM

https://www.facebook.com/watch/?v=2698858386853235

https://www.garibaldini.org/2019/04/appuntamento-30-aprile-2019/

 

 

 

 

 

 

LO ASSEDIO DI ROMA Francesco Domenico GUERRAZZI LIVORNO – 1864

30 aprile 1849: la prima battaglia

I Francesi giunti al bivio della strada di Civitavecchia distante 1500 metri da Roma non si bipartirono, ma conforme loro persuade la consueta superbia tirano innanzi di conserva per la via che mena a porta Cavalleggieri. Di tratto in tratto incontravano scritto sui muri, ovvero sopra cartelli pendenti da pertiche l’articolo quinto della loro costituzione, e i Francesi leggevano e ridevano, usi a tenere le costituzioni in pregio di fazzoletti da naso, e peggio. Anco il giornale del Generale Vaillant ricorda queste iscrizioni; erano della libertà che trucidavano, ma il soldato non volle vederci altro, che sceda, e ne tolse argomento a inviperirsi, ché il disposto a male fa di ogni erba fascio per attutire il grido della coscienza. Il Masi pistoiese gentile intelletto, caro alle Muse, e sacro affatto agli studi letterari di subito diventa non pur soldato, ma capitano, intrepido quanto arguto; da ciò piglino esempio quei soldati a cui par bello ostentare barbarie quasi ornamento della milizia: il soldato italiano è bene che sappia come i supremi capitani antichi ponessero il brando a segno del volume, che leggevano meditando, anco in campo; Bruto vigilava la notte precedente alla battaglia di Filippi su i libri di Platone, e Cesare nel tumulto di Alessandria null’altro ebbe a cuore eccetto salvare i suoi commentari i quali tenne levati sopra l’acqua con la mano sinistra, mentre notava con la destra; e degli altri mi taccio. Dei moderni soldati italiani basti dirne questo, ch’essi (parlo di quelli che militarono per la repubblica e per lo impero) decorarono la Paria delle migliori versioni delle opere greche: negli zaini loro portavano pane, e libri, quello pel corpo, gli altra per l’anima.

Il Masi pertanto difendeva la porta dei Cavalleggeri, l’altra detta Angelica, e le mura del Vaticano con la seconda brigata di milizia cittadina, e col primo battaglione leggero di fanteria. Il colonnello Calandrelli mirabile a trattare artiglierie, dal fato avverso condotto a dare la opera, e la vita in lontane regioni per causa non nostra, e né manco della libertà sosteneva co’ suoi cannoni da Santa Marta il Masi. Appena l’uffiziale posto a vedetta in cima alla cupola di San Pietro accennò lo appressarsi dei Francesi i campanoni del Campidoglio e di Montecitorio chiamarono a raccolta; della qual cosa menavano i nemici inestimabile allegrezza, taluno reputando che sonassero l’Angelus, altri a gloria per riceverli in trionfo. Il Petrarca nostro lamenta che ai suoi dì con le campane si desse il segno di battaglia:

«Né senza squille si comincia assalto «Che per Dio ringraziar fur poste in alto.»

Il Petrarca se intendeva favellare di guerre fraterne, senza fallo aveva ragione, se poi di battaglie in difesa della Patria certo ebbe torto; però che la vita offerta in sacrificio della Patria minacciata dal furore straniero, sia la migliore preghiera, anco a giudicio dei sacerdoti di Cristo.

Ma il cannone del Calandrelli ecco, che arriva a levare via lo inganno delle campane; due palle una sopra l’altra aprono un pertugio sanguinoso nella colonna stipata che si avanza. Allora degli assalitori alcuni sbandaronsi pei vigneti, o ripararono dietro gli archi dell’acquedotto dell’acqua Paola, altri sparpagliaronsi su i clivi fiancheggianti la strada, affermano per comando del Generale, e sarà, ma lo sbandarsi l’ordinava il cannone del Calandrelli, non l’Oudinot. Però dietro ai muri gli assalitori presero a trarre colpi, pur troppo bene aggiustati, atteso la molta loro prestanza, e la bontà delle armi. Il sangue, che primo lavò le mura di Roma dalla secolare infamia fu versato da Paolo Narducci romano, anima grande, che memore delle glorie antiche non pianse, ma esultò vedendosi tronco il fiore della gioventù: misero chi vive troppo! Dopo lui cadde Enrico Pallini aiutante maggiore mentre confortava con le parole, più con lo esempio i soldati ad usare ferocemente le mani; altri pure, massime artiglieri, lamentammo noi morti o feriti, i nomi dei quali sommerse nelle sue acque buie l’oblio; di qui nasce, e non può fare a meno, scompiglio; il fuoco delle nostre batterie rallenta, di che approfittansi gli avversari, i quali, così ordinando il capo di squadrone di artiglieria Bourdeaux piantano su certa altura due cannoni; da questa però poco frutto cavavano, lontana dal bastione 900 e più metri; allora partonsi di galoppo con due altri pezzi di artiglieria, e non curando mitraglie, corrono gli artiglieri francesi a collocarne altri due in batteria dietro il riparo di un’arco degli acquedotti; i nostri consolata un po’ la tristezza, ripigliano il trarre; pietà ha luogo nei combattimenti più o meno secondo la indole benigna, ma in tutti prevale l’ira; tre quarti belva l’uomo fuori di battaglia, in mezzo della battaglia tutto.

I Francesi obbedendo ai comandi del Capitano senza stringere ciglio secondo ché vogliono la disciplina militare, e il proprio ardimento attraverso un turbine di ferro e di fuoco si avventano contro i bastioni: erano due reggimenti di linea, il 20, e il 33; li conduceva il generale Molliere cercando una via per penetrarci dentro; i bersaglieri francesi rincalzavano l’audace impresa con lo spesseggiare di mortalissimi tiri; per essi stramazzò spento il brigadiere Della Vedova soldato vecchio, e modesto quanto animoso; ne andarono malconci di ferite il capitano Pifferi, il tenente Belli, il cadetto Mencarino, e il maresciallo Ottaviano; insomma tanto per loro si operò, che uno dei nostri cannoni tacque per manco di artiglieri; tacque, ma per poco, chè sottentrano ai caduti il soldato De Stefanis, il caporale Ludovich, e il capitano Leduc con sorte punto migliore dei primi però che entrambi stramazzassero a piè del pezzo colpiti nel petto; Leduc nacque belga, ma dove si combatteva per la libertà quivi era la sua Patria: illustre per gesti operati contro gli Austriaci presso Este, dove li vinse prima, poi gli affamò con lo impedire che fino a loro arrivasse la vettovaglia. Riposa in pace nella terra dei nostri padri, o eroe, e come avesti per madre la Italia, ella ti onora per figlio raccomandando la tua memoria ai più tardi nepoti: altra mercede ella non può darti; nè altra ne vorresti tu generoso.

Nel cuore degl’Italiani accesi dallo amore di Patria la smania della vendetta fa come vento in fiamma; dalle mura di Roma grandina ferro, chè il celere trarre risponde al palpito concitato, nè ci resistono i Francesi i quali laceri, duramente respinti danno indietro addopandosi alle asperità del terreno, o cercando in luoghi meno esposti iparo. Ira fosse o virtù tornano ad arroventarsi i Francesi, che balzando fuori dai ripari con raddoppiato ardire piantano cannoni nel bel mezzo della strada; un’altra batteria assestano sopra la terrazza di una casa, e due volte irrompono contro le mura, e due infrangendocisi dentro si ripiegano addietro scemi di morti, e grondanti sangue. Se cerchi la causa della bestiale ostinazione la troverai agevolmente, ma agevolmente non la crederai: pure è vera, e la racconta lo stesso Giornale del Vaillant; il supremo capitano Oudinot teneva per fermo che nel luogo dove spingeva i suoi occorresse una porta, la quale immaginava potersi fracassare mercè alcuni sacchi di polvere a questo fine portati dagli assalitori: per voglia di credere quanto più giova rimase ingannato, però che mai in cotesto lato ebbero porta le mura di Roma, bensì una postierla detta Pertusa da tempi remotissimi murata, e rincalzata per di dentro di terra. Oh! se le male fatte loro i Francesi non rammendassero con la soverchianza delle armi come piangerebbero lutti patrii più lunghi e più miserabili dei nostri. Tuttavia questo errore scemerebbe la censura dell’altro errore commesso dall’Oudinot pel disegno di assalire ad un punto due luoghi tanto fra loro distanti, porta Cavalleggeri, e porta Angelica. Poichè a prova di sangue i Francesi rimasero chiariti come di là non si passava deposero il pensiero di fare cosa, che approdasse da cotesta parte.

Intanto il Garibaldi dall’alto del casino dei Quattro Venti notava l’assalto, e il respingimento dei Francesi, sicchè gli parve cotesto tempo da mostrarsi percotendo di fianco: però spinse fuori della porta San Pancrazio alcuni drappelletti alla spicciolata, affinchè cauti ed improvvisi cascassero addosso al nemico, il quale dal canto suo stando su l’avvisato accortosi della insidia spiccò senza indugio un rinforzo per sostenere i cacciatori di Vincennes commessi alla cura della difesa di quel lato, onde non venissero sopraffatti.—I nostri volevano spuntarla, i Francesi risoluti a vincere pur essi, o a morire; in loro prepotente lo studio di mantenere l’antica fama di prodi, nei nostri il furore di torsi via dalla faccia la turpe nota di codardi: si venne a battaglia manesca dove si adoperarono non pure le armi, ma i morsi; rotti gli ordini ne successe una baruffa promiscua donde uscivano aneliti, guaiti, e aria densa, e sangue. Qui tra i primi periva il capitano Montaldi.

Chi egli fosse gl’Italiani imparino dallo stesso Garibaldi, il quale favella di lui nelle sue memorie inedite in questa maniera: «chi conobbe Goffredo Mameli, e il capitano De Cristoforis avrà idea delle fattezze del Montaldi e della età sua; nella pugna feroce e pure pacato come se fra amici si trattenesse in geniali colloqui; di lettere sapeva meno dei due rammentati, ma pari a loro in costanza intrepida, ed in militare virtù. Fino dagl’inizi egli fu parte della legione italiana a Montevideo, giovanissimo si versò in innumerevoli combattimenti per terre straniere, ma quando la Patria ebbe bisogno dei suoi figli, tra i primi il Montaldi passava il mare per offrirle tutto il suo sangue. Genova può incidere con orgoglio il suo nome a canto a quello del suo poeta, e guerriero Mameli: egli esalò la sua grande anima per diciannove ferite!» Caddero pure per non rilevarsi più i tenenti Righi, e Zamboni; feriti rimasero il giovane Statella figliuolo del generale napolitano, il maggior Morrocchetti, e i tenenti Dall’oro, Tressoldi, e Rota. Di questi altro non seppi, che virtuosi furono e degni figli d’Italia; più lunga storia narrerò del Ghiglione genovese: ogni ricordo è sacro; balusante negli occhi, o come oggi si direbbe miope si cacciava imperturbato davanti a tutti, però che, egli diceva, avesse bisogno di vedere il nemico da vicino, ma ciò non gli bastava, onde sovente si recava la lente all’occhio per mirare dove avesse a trarre, poi quinci rimossala, sparava, e sparato a pena col suo occhialetto sul naso speculava se avesse imberciato giusto; mentre così si travaglia, stando con la gamba sinistra sporta innanzi, ecco una palla francese ferirlo nei glutei, e cadde; lo soccorse tosto Pietro Ripari chirurgo, uomo di cui la Italia avverebbe mestiero crescesse il seme mentre pur troppo a mano a mano se ne perde la razza. Ora egli possedeva un cavallo vecchio, e magro, tuttavia inglese schietto già appartenuto al Duca di Torlonia di cui la storia come stranissima merita essere raccontata. «Così concio il giovane Ghiglione diceva al Ripari, mi toccherà starmene a letto per mesi, però tu piglia il mio baiardo e servitene.» Con questo cavallo il Ripari andò a Palestrina, tornato a Roma lo lasciava infermo in mano al manescalco perchè lo guarisse, senonchè gitosene a Velletri una sera lo incontra alla fontana dove lo avevano condotto ad abbeverarlo; di che egli stizzito mentre cerca chi fosse colui il quale a quel modo alla spiccia tornava in uso la pristina comunione delle cose trova essere stato il Mameli; glielo lasciava il Ripari e fu sventura, perchè il Mameli incavallato sopra cotesto altissimo animale potè facilmente essere tolto di mira, e vi ebbe la ferita ond’ei miseramente perì.—

Scrivono taluni, che vi rimanesse ferito anco Ugo Bassi, ma non è vero; cadde prigione soltanto ed ecco come: di lui diremo sparsamente più volte, intanto si sappia com’ei preso da sacro furore in guerra sembrasse una spada brandita dall’angiolo della sterminazione: in pace tanto nel suo petto soprabbondava l’amore, che non pure amava i propri simili, ma di smisurato affetto proseguiva anco le bestie; pari in questo a San Francesco, che chiamava sue sorelle le rondini, e fratello il lupo; però non è da dirsi quanto egli fosse attaccato a certa sua cavalla storna compagna inseparabile dei suoi perigli e delle sue pellegrinazioni: ora mentre montato su questo animale egli scorre lungo la fronte del nemico, tutto fiamma nel volto con forti parole soffiando nella virtù dei nostri perchè divampasse più gloriosa, ecco otto colpi di moschetto mandano sottosopra cavalcatura, e cavaliere: per fortuna tutte le palle penetrarono nel corpo alla bestia, il Bassi andò incolume, che rilevatosi indi a poco e vista morta la compagna le s’inginocchiò a lato, con molto pianto abbracciandola e baciandola; le chiuse gli occhi, le recise parte dei crini e se li ripose in petto conforme costumano gl’innamorati con le chiome dell’amata donna: i Francesi lo colsero in cotesto atto, lo pigliano, lo spogliano, e se lo cacciano innanzi percotendolo con isconce battiture, in modo pari a quello che gli Spagnuoli praticarono con Ignazio da Loiola; se non che la leggenda narra, che Ignazio rapito in estasi o non sentiva i calci, o gli aveva per grazia, mentre il povero Ugo, io metto pegno, che non ne provasse piacere.

Le storie raccontano che il Generale Garibaldi in cotesta battaglia riportasse contusioni non ferite, e male si appongono. Verso sera del 30 egli salito su di un poggiolo di pietra porgeva lodi e grazie agli studenti che in cotesta giornata combatterono come persone cui paia ventura cambiare la vita con la fama di martire per la Patria, e gli animava a perdurare nell’alto proposito, gli avrebbe avuti desiderati compagni in altre prove; intanto abbassati gli occhi e visto il suo chirurgo Ripari piegandosi verso lui gli sussurrava nell’orecchio: «venite stanotte da me, perchè sono ferito, ma nessuno lo sappia.» Difatti egli aveva riportato una ferita di palla nel fianco destro, che senza penetrare dentro gli aveva lacerato i muscoli dell’addome; pericolosa non fu mai, molesta sempre, e di guarigione difficile, sicchè non ne uscì guarito, che pochi giorni prima della caduta di Roma;—egli ne tacque sempre, ora lo dice, ed il Ripari, che tutte le sere gliela medicò conferma.—Ma questo accadde sul declinare del giorno; adesso il Garibaldi non ha tempo per pensare alle sue ferite; chiamato rinforzo e venuto da Roma condotto dal colonnello Galletti si scaglia con nuova lena contro i Francesi, i quali sopraffatti si ritirano; scopo del Garibaldi era circuire il nemico, ed assaltatolo con tutte le forze alle spalle troncargli la ritirata su Civitavecchia, e costringerlo a deporre le armi; e certo gli riusciva, se in cotesto suo moto mettendosi diritto alle batterie romane non fosse stato lacero dai fuochi di quelle, le quali traevano senza posa su la massa non distinguendo amici da nemici, ed anco se i Triumviri gli mandavano oltre i primi nuovi rinforzi; nonostante ciò il Garibaldi prosegue il corso della prospera fortuna, si lascia addietro la villa Valentini occupata da un battaglione francese, e si spinge fino alla villa Panfili, che espugna a furia di baionetta.—I Francesi da per tutto in rotta: intanto quattro compagnie dei nostri si dispongono a conquidere il battaglione della villa Valentini tutta cinta di mura; il Bixio siccome lo porta l’ardore del sangue afferra il cancello, che chiude la cinta e squassando forte e urlando da spiritato tenta schiuderlo, mentre le palle strepitano schiacciandosi contro i ferri del cancello rasente alle dita dell’audace soldato; altri non meno animosi gli si uniscono, e con forze riunite lo schiudono; nè i Francesi aspettano gli assalitori, presi dallo spavento si danno alla fuga. Aperto appena il cancello una spaventosa apparizione agghiaccia i cuori dei più feroci: un cavallo e un cavaliere tornano dal campo verso Roma, quello muove i passi a stento, l’altro vacilla a destra e a manca ciondolando il capo; aveva abbandonate le redini, che strisciavano sul terreno: le mani teneva pendenti ai lati della sella; la criniera, il collo, il petto, le gambe davanti, lo bordature del cavallo grommose di sangue; di sangue del pari rappreso il ventre e le gambe del cavaliere sordidate: il volto di lui più che cera bianco, ed inclinato sul petto: qualche palla ferendolo nella grande aorta ventrale lo aveva di certo concio a quel modo. Veruno ebbe ardimento di fermare cotesto cavallo che se gli bastò la lena sarà entrato in Roma, e lento lento tornato alla stalla consueta per morirvi a canto al suo signore già morto. Cotesto cadavere pauroso era di giovine leggiadro, e ricco a Vicenza: apparteneva alla cavalleria di Masina dove pel suo valore ottenne sollecitamente grado di ufficiale. Il Masina, che venuto a Roma per ragguagli e per ordini tornava a sprone battuto al campo incontra il morto a cavallo, e ferma in quattro, poi si mette a guardarlo con occhi sbarrati; lo riconobbe, si diede di un pugno nella fronte prorompendo in fiero sacramento, poi si slanciava a briglia abbattuta, e scomparve.—La madre del giovane dimorava lontana, e quando le annunziarono la morte del figlio le tacquero certo i particolari del caso, se ella lo avesse veduto l’avrebbe fulminata il dolore.

I Francesi movono lamento di certo strattagemma adoperato dai nostri per fare di un tratto prigioni un due centosessanta Francesi: ecco come sta la faccenda. Il maggiore Picard con trecento allo incirca soldati del 20° di linea su le ore antimeridiane aveva preso certa posta in prossimità alla villa Valentini, e quivi stette fino al termine della giornata, il quale venuto, alcuni dei nostri furbescamente presero a sventolare fazzoletti bianchi mostrando volersi abboccare col Maggiore, cosa da questo più che volentieri accettata, allora gli dissero le milizie francesi entrate per accordo in Roma, andasse a vedere, lo condurrebbero eglino stessi; il Picard accettava, e raccomandato prima ai suoi che vigilassero su le armi, li seguiva. Vedovo il corpo del suo capo lo circondarono i Romani due o tre volte più numerosi, e sforzatolo a deporre le armi, lo menano prigioniero a Roma. Posto vero il fatto, paiono peggio che strani i lamenti; gli strattagemmi consueti in guerra; la morale condanna quelli, che arieggiano di tradimento, e di ferocia codarda, si accomoda agli arguti; la ragione di stato si approfitta di ambedue: i Francesi poi immaginosissimi a inventarne dei nuovi, ma della prima specie, in copia, scarsi i secondi: Affrica parli, e parlerà anco Roma. Il comandante, il quale lascia per lusinghe i suoi soldati peggio, che stolto; ed egli non unico a condurli; dopo lui rimanevano altri ufficiali quanto egli capaci, e forse più di lui; nè i nostri li colsero alla sprovvista, dacchè partendosi, egli ordinava loro stessero vigilanti: dunque non cessero per inganno bensì per forza di arme; tagliati fuori essi giudicarono ogni resistenza vana: per me credo che tale operasse il Picard per non trovarsi presente alla resa volendo piuttosto comparire gaglioffo, che poco animoso.—Però diverso raccontano taluni dei nostri l’avventura e affermano il Bixio avere messo le mani addosso al Picard tentennante ad arrendersi, il Franchi di Brescia avere fatto altrettanto col sottotenente Rennelet, ed ambedue disarmati, e bendati trassero al Generale Garibaldi il quale li mandò al Ministro Avezzana.

Poichè alla porta dei Cavalleggeri fu respinto lo assalto non potendo patire i Francesi di aversene a tornare indietro con l’onta di una sconfitta (molto più che a rimprovero o a scherno della pecoraggine loro i nostri allo strepito delle artiglierie, e delle moschetterie alternavano i suoni dell’inno nazionale di Francia, la marsigliese, capace un dì come vantava il suo autore a movere centomila uomini, ed oggi diventato tanto innocente presso cotesto popolo, che lo insegnano per sollazzo ai pappagalli.—A siffatte ruine può precipitare un popolo per manco di virtù sua, e per malignità altrui!) il capitano Fabar, quel desso, che venne già in Roma per abbindolare i Romani voltosi al Generale Oudinot così prese a favellargli: «Generale ho riconosciuto più innanzi certa stradella la quale senza pericolo di restare offesi dal fuoco dei bastioni conduce alla porta Angelica, dove accadrà il tumulto concertato per aprircela.» L’Oudinot ridotto ad appigliarsi ai rasoi, crede al parabolano, ed ordina al Generale Levaillant di mettersi dietro al capitano con la seconda brigata, e due cannoni. Questo sconsigliato caccia dentro le milizie nel sentiero che si aggira per le muraglia dei giardini del Vaticano, e di vero potè procedere nascosto fino a duegento braccia dalla porta Angelica, ma appena i nostri lo videro sboccare fuori della strada, presero a sfolgorare la testa della colonna con una grandine di palle. La brigata balenava alquanto, non retrocesse; all’opposto si attelò di faccia, e postò i due cannoni. Di qua e di là si rinfocola la battaglia, ma sopraggiungono di corsa i carabinieri romani, il Calandrelli parve in quel dì trasformarsi nel centimano Briareo con le sue artiglierie: la morte menava baldoria, che i Francesi cadevano giù come insetti strizzati dal primo freddo di novembre; i cavalli dell’artiglieria esanimi a terra, e a terra pure percosso per non rialzarsi il Fabar. Possano gli oltraggiatori della nostra Patria non provare destino migliore del suo! Anco qui laceri i Francesi ebbero a ripararsi a frotte scompaginate per gli avvallamenti del terreno, o dietro ai muri continuando il fuoco scarso e languido anco per parecchie ore; i cannoni rimasero derelitti; potevano i nostri andare a pigliarli, ma non essendo consentito l’uscire, alle due dopo la mezzanotte i Francesi vennero a tirarli di cheto a braccia; a braccia pure si portarono i feriti.—Mille e più dei nemici morti, o feriti, o prigioni resero funesto per la Francia quel giorno; noi avemmo a rimpiangere dei nostri meno di duegento fra morti e feriti; e ci contiamo anco due cittadini morti, e quattro feriti; chi fossero i morti non mi occorre scritto; i feriti due giovanotti uno di 14, e l’altro di 16 anni, Mondavi Michele Romano il primo, l’altro Paolo Stella della legione romana con tre ferite, Bernardino Proietti da Spoleto ebbe il corpo trapassato da un pezzo di mitraglia; Giuseppe Caterini da Foligno con gran voce esclamò: viva la repubblica mentre gli amputavano il braccio ferito. Se la storia registra di Giovanni delle Bande nere il quale resse la candela al chirurgo mentr’ei gli tagliava la gamba offesa ci è parso giustizia non tacere la virtuosa ferocia del cittadino romano. Respinti da per tutto, a ragione paurosi di essere circuiti ed oppressi, o fatti prigionieri i Francesi passarono la notte su le armi, e la mattina maravigliando che quanto temevano non accadeva si ritirarono a Castello di Guido. Il terrore dei Francesi non era indarno, imperciocchè i generali Garibaldi, e Galletti pestassero mani e piedi per ottenere rinforzi, e sterminare il nemico, agevole il moto dacchè dalla villa Panfili, e dagli Acquedotti dominando la via Aurelia antica con celeri passi si poteva precorrere l’Oudinot a Castel di Guido, e chiudergli la strada; i Francesi poi rifiniti da dieci ore di combattimento, senza cavalleria, che nella ritirata li proteggesse, e sgomenti come porta la indole loro quando ne hanno tocche; noi altri avevamo due reggimenti di linea di riserva, due reggimenti di dragoni a cavallo, due squadroni di carabinieri, e il battaglione dei bersaglieri lombardi condotti dal colonnello Manara: questi nella giornata del 30 stettero su le armi, e non presero parte alla battaglia, perchè traditi a Civitavecchia davano la parola in pegno di non combattere prima del 4 maggio, e tanto bastava all’Oudinot fidente di tenere Roma prima di quel giorno, conto che gli andò proprio fallito; per ultimo le forze di un popolo ardente d’ira e di pietà! Si oppose Giuseppe Mazzini, e con lui gli altri Triumviri per risparmiare alla Francia la vergogna della piena sconfitta, e per non isperdere invano il sangue dei nostri giovani soldati combattendo allo aperto con veterani spertissimi: di tale partito i più degli scrittori riprendono il Mazzini, taluni spiegano il suo concetto, ma non lo lodano: di vero se la Francia avesse voluto procedere sempre con la consueta iattanza ne aveva tocche troppe, e male per non doversi vendicare, e se all’opposto con giustizia quanto più solenne la lezione, tanto più persuasiva: e poi co’ Francesi due nespole delle buone non guastano nulla; la esperienza ammaestra che fornita una impresa con la sua ruina si procede riguardosi a incominciarne un’altra, mentre la mezza batosta porge quasi lo addentellato a ripararla: arrogi l’acquisto delle armi, e alla verosimiglianza che di tanti prigioni in mano potenti per credito, e per autorità qualcheduno si mettesse paciere di mezzo proponendo condizioni comportabili. Per me giudico, che a perseverare nella lotta più che altro animasse il rapporto dell’Oudinot al Ministro della guerra a Parigi, il quale con l’arte nella quale i Francesi non conoscono non dirò pari, ma nè anco secondi affermava a faccia tosta: «non era nostro intendimento assediare, ma riconoscere la piazza, e ciò compimmo; così che dopo le nostre grandi guerre non si conosce per le nostre armi fatto più di questo glorioso!» E da tanto ch’ei lo giudicava glorioso che per l’angoscia ne infermò, e il Rusconi visitandolo lo rinvenne pallido e scontraffatto, e male con un diluvio di parole dissimulante l’ansietà dell’animo suo. All’opposto un medico francese scriveva agli amici suoi così: «temevamo una sortita e nel cammino occupato da tutte le parti, mi perito a dire che mai sarebbe accaduto; basta, come Dio volle, il nemico si rimase dietro le mura.» E nè anco questo è vero, però che il Garibaldi il giorno dopo li seguitò con la legione italiana, e qualche squadrone di cavalleria, ma indi per ordine del Governo retrocesse a Roma. Fra le altre non so se io mi abbia a dire fisime o bugiarderie dei Francesi ci fu quella di negare i danni per essi recati ai monumenti di Roma, senza accorgersi che smaniosi della lode per le virtù che non hanno, da sè medesimi si screditano nello attribuirsela per cose che fra loro contrastano, nè possono stare insieme; ed invero come avrieno potuto battere Roma dal lato del Vaticano senza offendere il Vaticano? Il generale Torre narra che una palla cristianissima frantumò certo immane triregno di travertino simbolo del potere temporale rotto per sempre dalle potenze cattoliche quando per forza di arme dentro le carni di Roma anzi d’Italia a mò di chiodo della passione lo riconficcarono. I rapporti dell’ingegnere Grass testimoniano quante palle di cannone e quante di moschetto offendessero il palazzo, e la basilica del Vaticano: due palle bucarono l’arazzo di Raffaello rappresentante la predicazione di S. Paolo nell’Areopago e il pezzo rimase attaccato alla palla: quattro fracassarono il tetto della cappella sistina; insomma menarono strage in quel giorno, e peggio fecero poi. Enrico Cernuschi per la sua piacevolezza, e per lo indomito ardire delizia del popolo romano andava dicendo non si affliggessero per cotesti danni, perchè la Francia aveva promesso pagarli e gli avrebbe pagati, che rigida osservatrice di sue promesse era la Francia, e ne porgeva fede cotesto caso perchè avendo eglino bandito volere entrare in Roma ci erano entrati di fatto; veramente non vincitori, bensì prigionieri, ma ciò non toglieva che al compito assunto non avessero dato recapito Comecchè io abbia tolto a favellare unicamente dei fatti di arme dello Assedio di Roma, non devo tacere delle donne patrizie o no ma nobilissime tutte che si consacrarono alla cura dei feriti.—Taluna di loro poi girò nel manico, e da per sè volle guasta la sua bella fama; anco gli scrittori clericali non si rimasero da turpi contumelie, ma se questi insudiciano non però fanno macchia, ed io con dolore sì ma non senza orgoglio registro, che Cristina Trivulzio principessa venne meno a sè medesima, chi crebbe fu Giulia Modena popolesca. Quando ci fu mestieri panni pei feriti si rinvenne mezzo spedito a procurarli oltre il bisogno; si tolsero carrette, e ad esse dietro parecchi uomini dabbene aggiravansi per la città con voci pietose facendo appello alla carità dei cittadini, e dalle finestre furono viste volare giù per la strada lenzuola, e di ogni maniera biancherie. Un vecchio, si narra, si condusse per verecondia dentro l’androne di certa casa, e quivi toltasi la camicia la porse lacrimando per sollievo ai feriti; senz’altro costui avrebbe offerto il cuore, e questi casi occorrono sempre là dove il popolo commosso da passione buona si lascia in balìa del proprio affetto: più arduo sciogliere i cuori impietriti dalla ira sacerdotale, però che a loro paia essere religiosi mostrandosi crudeli; tuttavia nelle donne prevale sempre la pietà, massime se le sieno giovani; di vero la mirabile carità delle signore conviventi nella casa di Tor de’ Specchi rappresentate dalla cittadina Galeffi dette il destro al virtuoso Aurelio Saffi di volgere loro queste nobilissime parole: «a fronte del sublime compenso, che queste amorevoli cittadine aspettano in un mondo migliore dalla loro carità, la prima delle virtù cristiane, i Triumviri ardiscono appena esprimere a queste gentili anime la più sentita gratitudine in nome della Patria.»

La ferocia dei barbari quantunque addolori pure non contrista tanto come la ipocrisia dei popoli, che si vantano civili, ed è ragione, che i primi in parte scusa l’ignoranza, mentre i secondi commettono due mali, il danno, intendo dire, e la menzogna per onestarlo; e poichè i Francesi bandiscono ai quattro venti la bandiera loro sventolare sempre colà dove appaia una causa civile a difendere, appena possiamo credere con quanta sfrontatezza negassero le ingiurie, che con le palle di cannone, le bombe, e perfino co’ moschetti recassero ai monumenti romani: si leggono tuttora i rapporti degl’Ingegneri commessi a verificare i danni, ed a ripararli; il pezzo lacerato, dall’arazzo del Sanzio senz’altro testimonio saria bastato a condannare i Francesi in giudizio. Gli è tempo perso; negli amici nostri ribolle sempre il mal sangue di Brenno; forse un giorno si correggerà tutto, ma la natura dei popoli cacciata via dalla porta torna dalla finestra.—Affermarono altresì, che i feriti loro patissero truci asperità dai nostri, ed i prigioni ingiurie; coteste le sono turpitudini che non importa rilevare nè anco; chi gli abbandonava senza pur visitarli fu un Forbin de Janson oratore di Francia a Roma, i nostri non misero differenza nell’opera della carità tra Francesi, e Italiani; anzi concessero, che gli amici loro dal campo venissero a consolarli con la nota faccia, e la favella del natio paese, chè lontani della Patria ogni conterraneo ci sembra parente.—

Nè importa a noi, e sarebbe bassa voglia, chiarire le bugiarderie dei rapporti dell’Oudinot, che francese egli era, ed aveva per dirle più bisogno degli altri; piuttostochè improvvido volle passare per gaglioffo; e tale sia di lui; la superbia offesa gli diede la febbre, e il Rusconi, chè lo vide in quel torno a Castel di Guido scrisse, secondochè notai averlo trovato stravolto, angosciando in mezzo ad un vaniloquio di errori, di minaccie, e di sospetti per non dire paure; poteva acchetarsi ad essere argomento di scusa, dacchè la fortuna delle battaglie stia in mano di Dio, prescelse farsi oggetto di scherno di faccia alla Europa: e’ sono soldati.

Somma la fede nostra come somma la perfidia dei Francesi: i bersaglieri del Manara bene stettero schierati a tutela della città, ma al combattimento del 30 aprile non pigliarono parte perchè riputaronsi vincolati dalla promessa di astenersi dalla zuffa fino al giorno quarto di maggio, e fu coscienza sciupata sia perchè non essi bensì il Preside di Civitavecchia aveva fatto la promessa, nè vincolava perchè estorta a forza e iniquamente, e poi i Francesi non osservarono mai promesse, nè patti: per ultimo quel dabbene Manara che fu quanto onore visse al mondo non andò immune da accusa per parte dello impronto nemico, il quale ardì appuntarlo di essersi rimasto in ordinanza con l’arme in collo durante la giornata del 30 aprile.

La storia si fa con i documenti. Una novità per i simpatizzanti dell’epopea garibaldina e un materiale utile per i suoi detrattori. Ringraziamo Leandro Mais per questo ulteriore contributo.

DOPO NOVANTAQUATTRO ANNI SI RICOSTRUISCE IL CARTEGGIO  “LANDI – GARIBALDI”

Una fortunata circostanza ci permette di poter disporre (il caso è veramente raro) dello scritto di Michele Landi  (Bologna 1° ottobre 1861) figlio del Generale Francesco Landi, e la risposta (Caprera 1° novembre 1861) di Garibaldi.

Il carteggio si riferisce alle accuse che erano state rivolte al Generale Landi, comandante delle truppe borboniche sconfitte dai Mille di Garibaldi nella battaglia di Calatafimi, riguardanti sia l’inefficienza nel coordinamento delle sue truppe, sia  un presunto incasso di una polizza di credito che avrebbe ricevuto dal Banco di Napoli come ricompensa per aver favorito l’avanzata di Garibaldi.   

Della prima lettera sappiamo che faceva parte della collezione del grande storico Giacomo Emilio Curatulo.  Essa fu acquistata, con tutti gli altri pezzi della collezione garibaldina, dal Museo del Risorgimento di Milano. Questo documento si trova pubblicato alle pagine 210/212 del volume  “Scritti e Figure del Risorgimento Italiano”,  con documenti inediti. (Emilio Curatulo – Ed. F.lli Bocca, Torino 1926  (vedi foto 1,2,3,4,)

Nel Vol. VI dell’Epistolario di Giuseppe Garibaldi  1983, a pag. 184 n° 2207, è riportata la risposta di Garibaldi, della quale però è citata solo la pubblicazione del Campanella. Sarà gradito sapere, ai lettori, che questa lettera fa parte della mia collezione garibaldina;  il testo, vergato da Enrico Albanese e autografato dall’Eroe, è pubblicato a pag. 50 n° 10M nel libro “Giuseppe Garibaldi  in 152 lettere e documenti autografi”,  a cura di Paolo Macoratti e Leandro Mais – Ed. Garibaldini per l’Italia – Roma 2016.  Di questa lettera si riporta la trascrizione.

Leandro Mais

   

                                                                                                                                                                                                                                          

10 MAl figlio del Generale Landi – Testo scritto da Enrico Albanese e firma autografa di Garibaldi

Caprera 1° Novembre 1861

     Mio caro Landi,

ricordo di aver detto nel mio

ordine del giorno di Calatafimi – : che

non avevo veduto ancora soldati

contrari combattere con più valore;

e le perdite da noi sostenute in quel

combattimento lo provavano bene.

     Circa i quattordici mila ducati

ricevuti dal vostro bravo Genitore in

quella circostanza – potete assicurare

gl’impudenti giornalisti che ne insulta_

no la memoria, – che 50 mila lire era

il capitale che corredava la prima

spedizione in Sicilia – e che servirono

ai bisogni di quella – non a comperar

Generali. -

     Sorte dei Tiranni!.. – Il Re di

———————————————–

Napoli doveva soccombere! – Ecco il

motivo della dissoluzione del suo esercito.

- Ma vostro padre a Calatafimi e nel-

la sua ritirata su Palermo, fece il

suo dovere da soldato! -

     Dolente in quanto avete perduto,

vogliate presentarmi alla vostra fami_

glia come un amico e credermi con

affetto. V.ro             

                                                     G. Garibaldi

 

 

         Una mente razionale, abituata a considerare reale solo ciò che viene percepito dai cinque sensi, avrebbe classificato la storia che ha portato al ritrovamento dello Scudo di Garibaldi  come “un raro colpo di fortuna”.  Ma la successione degli avvenimenti e la dinamica temporale degli stessi, quasi fossero propedeutici alla costruzione del risultato finale, distraggono la mente  dal razionale per portarla inevitabilmente verso il mondo ancora misterioso delle coincidenze.

          Qualche anno fa, durante uno dei frequenti incontri avuti con Leandro Mais, membro Onorario della nostra associazione e appassionato collezionista di una importante raccolta su Garibaldi e sui garibaldini, venivo a conoscenza di un fatto singolare accaduto nel 2002, in occasione della pubblicazione, in una rivista di Palermo specializzata in fotografia, di un articolo firmato da uno specialista, amico dello stesso Mais, sul fotografo palermitano dell’800 Giuseppe Incorpora. Poiché l’Incorpora era stato il primo, nel 1878, a fotografare lo Scudo di Garibaldi (All. 1), lo specialista aveva deciso di recarsi al Museo del Risorgimento di Roma, ove era conservata l’opera, per scattare una foto direttamente all’originale, e poi pubblicarla. Al suo ritorno dal Museo, l’amico aveva riferito al Mais che lo Scudo non era più in mostra in quanto alcuni ignoti ne avevano asportato l’altorilievo centrale raffigurante la testa di Garibaldi! Pertanto, nell’articolo, era stata riprodotta  la vecchia foto eseguita dall’Incorpora, proveniente comunque dalla collezione Mais. Questa era la sola versione esistente del fatto, visto che la stampa non aveva riportato alcuna notizia dell’eventuale denuncia di furto presentata dal Museo del Risorgimento alle forze dell’ordine.

L’opera d’arte era stata donata dal Popolo Siciliano a Garibaldi l’11 maggio 1878 e, da quest’ultimo,  ceduto al Comune di Roma nel 1879.  L’11 giugno 1882, in occasione delle onoranze che il Comune aveva reso all’Eroe, lo Scudo era stato posto su di un carro celebrativo, accanto a varie corone di fiori (All. 2).  In seguito, se ne era potuta ammirare la bellezza all’ Esposizione Italiana di Torino del 1884, sezione industriale e artistica (All. 3) e, sempre a Roma, in quella Garibaldina del 1932, nel cinquantenario della morte del grande condottiero (All. 4).  

Il prezioso oggetto si ripresenta  sulla scena, in una forma del tutto inconsueta,  sul finire del mese di ottobre del 2019, quando decido di attraversare la città per andare a tagliarmi i capelli a casa di un barbiere ultraottantenne, del quale sono stato cliente fedele per decine di anni, e dal quale continuo a recarmi saltuariamente, per amicizia,  anche dopo il suo abbandono della professione. Dopo le rituali operazioni di taglio, l’amico, conoscendo la mia appartenenza a una Associazione Garibaldina, mi segnala che un negoziante di antiquariato da cui si reca ogni tanto per l’acquisto di piccoli oggetti d’epoca, ha sottoposto alla sua attenzione un pezzo di rara bellezza, propostogli, a sua volta, da un privato che ne è in possesso e che vuole vendere: uno scudo metallico, variamente decorato, con al suo centro una piccola scultura raffigurante la testa di Garibaldi. E aggiunge, inoltre, di non essere interessato all’eventuale acquisto, sia per l’alto costo (ottomila euro), sia perché il tema dell’opera potrebbe essere apprezzato solo da un estimatore del periodo risorgimentale. Mentre ringrazio per il pensiero, immagino come possa essere questo oggetto, senza preoccuparmi di collegarlo alla storia descritta precedentemente. Il primo dubbio, però, mi assale quando il barbiere, approfondendo la descrizione trasmessagli dall’antiquario, ne mette in evidenza il diametro, mimandolo con l’apertura delle braccia e asserendo che l’oggetto può essere spostato solo con la forza di due persone. Quest’ultimo particolare suscita in me la curiosità di vederlo, almeno in foto. Fingendomi interessato all’acquisto, chiedo all’amico di farmi inviare dall’antiquario, sul mio telefono cellulare, l’immagine dello Scudo.

Dopo qualche giorno senza comunicazioni né immagini, ripongo nel cassetto della dimenticanza oggetto, offerta e curiosità, fino al momento in cui, invitato a casa dei coniugi Mais, colgo l’opportunità per raccontar loro brevemente il fatto. Questi ultimi, certi che non si tratti del famoso Scudo, di cui conoscono la storia, compresa quella della “decapitazione”, condividono la mia curiosità, momentaneamente accantonata. Passano pochi minuti.  Mentre siamo intenti a parlare d’altro,  arriva inaspettata  sul mio cellulare l’immagine che avevo precedente richiesto, inviatami, anche se con ritardo, dall’antiquario. A questo punto è facile immaginare sorpresa, stupore e incredulità nel riconoscere in quell’oggetto proprio lo Scudo di Garibaldi: integro, bellissimo e soprattutto identificabile in base all’immagine d’epoca del famoso fotografo siciliano Incorpora, posseduta dal Mais, e attraverso la descrizione tratta dall’articolo di un giornale d’epoca. Scudo integro, dunque, e non “decapitato”! Il fatto meritava un serio approfondimento (All. 5).

Decido dunque di contattare nei giorni seguenti l’antiquario per prendere un appuntamento e recarmi con lui a casa del privato, e vedere finalmente l’oggetto. Deciso il tutto, ci rechiamo nel giorno  e nell’ora prefissata da un anziano ingegnere (poi risultato architetto) il quale, senza indugio, ci porta nella sua cantina e da qui estrae, aiutato dall’antiquario medesimo, uno scudo metallico circolare, policromo, molto pesante. A questo punto ogni dubbio svanisce: mi avvicino all’oggetto con trepidazione, e accarezzo la testa dorata dell’Eroe pensando che sicuramente anche Lui lo avesse fatto, in segno di ammirazione per la perfezione e bellezza dell’opera scultorea. Avevo portato con me la descrizione minuziosa dei simboli e delle incisioni praticate sullo Scudo e la loro collocazione nella ripartizione dei vari settori (All. 6); le ritrovo tutte, quelle incisioni, dai nomi dei Mille a quello di Anita, da Rosolino Pilo a Vittorio Emanuele II, emozionandomi insieme all’antiquario che inizia per la prima volta a comprendere l’unicità e l’importanza dell’oggetto che gli era stato proposto per una mediazione di vendita.

Chiedo all’ingegnere delucidazioni circa la provenienza dell’opera d’arte;  lui mi risponde di aver lavorato per molti anni al Museo del Risorgimento di Roma come responsabile degli allestimenti delle mostre, e di aver ricevuto lo Scudo dall’allora Presidente dell’Istituto del Risorgimento, nel frattempo deceduto, in cambio di lavori eseguiti e mai liquidati! Chiedo allora, anche se non dovrei farlo, vista l’assurdità della sua risposta, se ci sia un documento che possa in qualche modo attestare questa dichiarazione. Naturalmente no! A questo punto chiedo all’ingegnere se il Direttore del Museo (lo stesso dirigente che aveva raccontato all’amico di Mais la storia del furto), sia a conoscenza di quanto asserito, ma ho da lui  ancora una risposta negativa.  Vedo se si riesce a uscire da questa situazione imbarazzante: propongo allora all’ingegnere, che accetta, di telefonare il giorno successivo al Direttore del Museo per informarlo della sua volontà di far rientrare lo scudo al Museo. Da parte mia avrei verificato, tramite l’antiquario, se l’operazione fosse stata puntualmente eseguita. Dopo una settimana, non ricevendo notizie, chiamo l’antiquario che mi informa dell’avvenuta telefonata tra l’ingegnere e il Direttore del Museo: costui gli avrebbe intimato di riportare subito lo Scudo nella sua antica sede storica. Trascorsa ancora una settimana senza notizie, temendo a questo punto che alle parole non fossero seguiti i fatti, e che lo Scudo potesse volar via, persino all’estero, decido di confidare il tutto al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Roma – Gianicolense, che conosco da una ventina d’anni. Il Comandante comprende subito l’importanza del caso e nel giro di 48 ore, prima convoca me alla Stazione dei CC per ascoltare, alla presenza di alcuni funzionari del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, da lui stesso convocati, la storia dello Scudo di Garibaldi e del suo “miracoloso” ritrovamento; successivamente si reca con gli stessi funzionari a casa di Leandro Mais che confermerà, non solo l’importanza documentata dello scudo, ma anche la storia dell’ormai famosa “decapitazione”.

Il resto è cronaca che si può ritrovare nel Comunicato Stampa dei Carabinieri apparso sulle principali testate giornalistiche italiane. Attualmente lo Scudo è in custodia del sopracitato Nucleo T.P.C. dei Carabinieri.

Con rispetto assoluto delle indagini in corso, che si spera possano far luce completa sulle responsabilità degli attori di questa storia e di quelli ancora sconosciuti, deputati al controllo del materiale custodito nei depositi dei Musei e non esposti, mi auguro che lo Scudo di Garibaldi, che l’Eroe aveva donato generosamente alla città di Roma, possa essere collocato nella sala più visitata dal pubblico del complesso dei Musei Capitolini, con una targa che ne illustri la vicenda storica, artistica e umana, e una riga finale dedicata alla sua scomparsa dal Museo Nazionale del Risorgimento di Roma e del suo funambolico ritrovamento avvenuto nel 2019.  

Paolo Macoratti (Presidente Ass. Garibaldini per l’Italia) 

         

                  Carissimi amici, mi permetto di far seguire  a quanto illustrato dall’amico Presidente qualche notizia su questo “ritrovamento”, per la parte relativa alla mia collaborazione. Il sottoscritto ha semplicemente resi noti tutti i dati riguardanti la documentazione storica della preziosa opera di Antonio Ximenes.  La medesima è stata consegnata ai Carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Culturale durante la visita al mio domicilio. Ciò premesso, mi resta solo da sottolineare negativamente quanto segue: Il comunicato stampa cui ha fatto seguito la pubblicazione in varie testate di giornali (con molti errori) del ritrovamento dello Scudo da parte del suddetto Reparto T.P.C.  non ha fatto alcun cenno alla fattiva collaborazione dei due cittadini. Questa precisazione  valga solamente, da parte mia, come realtà dei fatti; per il resto sono contento di aver operato negli interessi della collettività.  

Leandro Mais

(le immagini 1-3-4-6 provengono dalla Collezione Mais)

 

     1    2    3    4    5    6

 

 

 

 

 

 

 

PUBBLICHIAMO L’INIZIATIVA DI UN GRUPPO DI CITTADINI VOLTA AL RICONOSCIMENTO NAZIONALE DI ROMA CAPITALE

 

La comunicazione a mezzo stampa che un tempo doveva essere necessariamente dettagliata e precisa per descrivere avvenimenti che rappresentassero adeguatamente fatti realmente accaduti, si è oggi trasformata con “l’alta velocità” di internet e delle reti sociali connesse, in una tendenza che produce eccessi di semplificazione. Il ricorso a questa tecnica di comunicazione, invece di arricchire con nuovi contenuti una verità storica consolidata, finisce per alimentare ulteriori dubbi e incertezze in quella larga fascia di cittadini già impoveriti culturalmente.

 Mi riferisco in particolare all’articolo apparso il 16 Agosto 2019 sul sito UNSERTIROL24.COM (www.unsertirol24.com/2019/08/16/garibaldi-a-bezzecca-una-vittoria-austriaca/) a firma di Everton Altmayer, in cui il giovane docente di San Paolo del Brasile in studi del dialetto trentino, con una mossa assai temeraria, non solo mette in dubbio la vittoria conseguita da Garibaldi a Bezzecca nell’ambito della terza guerra d’indipendenza italiana, ma attribuisce (malgrado la prudente frase interrogativa e il condizionale) l’etichetta di falso storico al famoso “Obbedisco” con il quale Garibaldi fu costretto, suo malgrado, a interrompere la campagna garibaldina del Trentino. A tale proposito vedi l’approfondimento del ricercatore e collezionista Leandro Mais riportato in questo sito: https://www.garibaldini.org/2016/09/battaglia-della-bezzecca-precisazioni/

L’articolo, criticato e riportato anche sulla pagina facebook di Cultura garibaldina per l’Italia (https://www.facebook.com/garibaldinitaliani/),  esordisce con l’indicazione, da parte dell’autore, di un reperto storico esistente ancora oggi al museo dei Kaiserjgäer ad Insbruk: la “portantina” usata da Garibaldi per i suoi spostamenti, non potendo quest’ultimo cavalcare a causa di una ferita al sommo della coscia subita al Ponte del Caffaro e dell’artrosi che lo tormentava da anni. Il fatto che la carrozza si trovi oggi in un museo austriaco non dice assolutamente nulla sull’esito della battaglia di Bezzecca.

 L’articolo prosegue con l’intento di dimostrare quanto le popolazioni coinvolte nella campagna di guerra fossero ostili a Garibaldi e ai Garibaldini e a Vittorio Emanuele II. A tale scopo vengono riportati i testi di alcune canzoni popolari in dialetto trentino. Nessuno mette in dubbio che ci sia stata da parte di una consistente percentuale di popolazione una profonda ostilità verso gli “invasori” in camicia rossa, visto che la maggior parte dei giovani di quelle vallate militavano nell’esercito austriaco. Allo stesso tempo però non si può ignorare la presenza nei reggimenti garibaldini di un nutrito numero di volontari trentini, come Ergisto Bezzi, Vigilio Inama da Fondo, De Zinis da Cavareno, Canella da Riva, i fratelli conti Martini, Vigilio Covi di Trento, i fratelli Giustiniano e Carlo De Pretis da Cagnò, Giuseppe Zecchini da Molina di Ledro, Amedeo Zaniboni da Riva, Giovanni Eccheli da Brentonico, Francesco Bonetti da Primiero, Luigi Tosadori da Riva, Camillo Zancani da Egna, ecc, ecc.. (Ugo Zaniboni Ferino – Bezzecca 1866 – Trento 1987 – pag.11)

 Come dichiara Everton Altmayer, “ le battaglie furono due…. L’esercito austriaco sconfisse il nemico e Garibaldi non riuscì a conquistare il territorio invaso”. Come sappiamo, soprattutto dalle fonti militari di entrambi gli schieramenti, peraltro molto dettagliate, le sorti della campagna del Tirolo furono dapprima alterne, con la presa e la perdita di posizioni che causarono molti morti e feriti. A Bezzecca, invece, l’intervento di Garibaldi mutò una situazione che si stava facendo drammatica per le truppe italiane; ricordiamo che gli Austriaci erano dotati di armamenti di precisione, tecnicamente di gran lunga superiori a quelli Italiani. In effetti la ritirata dei Garibaldini si trasformò ben presto in una fuga fin dentro le case del villaggio di Bezzecca.

 Fin qui si spinge l’articolo del Prof. Altmayer quando dichiara:” La popolazione locale non fornì nessun aiuto ai Garibaldini, anzi, festeggiò i cacciatori imperiali e la vittoria austriaca”. Quale vittoria? Cosa accadde ancora? La sconfitta pareva irreparabile quando le sorti della battaglia cambiarono: Giuseppe Garibaldi giunse alle otto sul luogo dello scontro e diede l’ordine di fare “l’Aquila”, ovvero di impadronirsi delle alture a destra; poi ordinò al 7° Rgt e agli avanzi del 5° di attaccare di fronte, e al Maggiore Dogliotti di posizionare la sua batteria di 8 cannoni sulle alture, indirizzandoli su Bezzecca. Gli Austriaci sotto tiro furono costretti ad arrestarsi e a ripiegare ai limiti dell’abitato per difendersi. Da qui l’assalto dei reparti comandati dagli ufficiali Menotti e  Ricciotti Garibaldi, Stefano Canzio, Mosto, Rizzi e Bidischini che, dopo una lotta “corpo a corpo” costrinsero gli Austriaci a fuggire da Bezzecca e dai villaggi attigui, ritirandosi completamente fino alla valle di Concei e su per i monti. Il Generale austriaco Khun si ritirò nel Tirolo tedesco, come risulta da un dispaccio inviato a Vienna. Garibaldi occupò Campi sopra Val di Concei stringendo Riva e iniziando l’assedio del forte di Lardaro. Ma la mattina del 25 gli giunse la notizia della tregua d’armi di una settimana, prolungata poi per un’altra settimana dal 3 agosto. Infine il 9 agosto eseguì l’ordine di sgombrare il Trentino.

 La battaglia di Bezzecca fu vinta dunque da Garibaldi; ma non solo! La spedizione Medici, seguita a distanza dalla divisione Cosenz, aveva ricevuto l’ordine dal Gen. Cialdini di muovere il 19 luglio verso la Valsugana, visto che Garibaldi aveva avuto un successo in Val di Chiese. Con 10.000 uomini e una marcia di 120 Km in 5 giorni da Vigodarzere (20 luglio) a Pergine (24 luglio) , con combattimenti superati a Cismon del Grappa, Primolano, alle Tezze, a Borgo e Levico, Medici mosse all’attacco di Trento il 24 luglio, ma si fermò a pochi chilometri in attesa di rinforzi, pensando di avere di fronte un considerevole numero di Austriaci. Quei rinforzi, come abbiamo visto, non sarebbero mai arrivati. Arrivò invece alle ore 16 del 25 luglio la lettera di La Marmora, trasmessagli da Cialdini, della tregua d’armi di cui sopra.  La storia, si dice sempre, non si fa con i “se”; vista però la portata degli avvenimenti successivi e considerando la nostra non appartenenza alla categoria degli storici di professione, ci possiamo concedere il lusso di poter affermare che la conquista di Trento nel 1866 avrebbe potuto risparmiare all’umanità centinaia di migliaia di morti e feriti della prima guerra mondiale.

Paolo Macoratti

 

Informazioni tratte da:

Ugo Zaniboni Ferino – Bezzecca 1866 – Trento 1987

G. Sacerdote – La vita di Giuseppe Garibaldi – Rizzoli & C. Milano 1933

Il documentario dal titolo “Combattente per la libertà e donnaiolo”, prodotto da “pretv” e “berlin producers”, in coproduzione con “2DF”, “ORF” e “Federal Ministry Education, Science and Research”, trasmesso in lingua tedesca e inglese, ha voluto ricostruire la vita di Giuseppe Garibaldi con l’aiuto di un cospicuo impianto scenografico, di documenti cinematografici e interviste a studiosi del Risorgimento Italiano.

 Se il risultato finale dell’operazione fosse stato proporzionale alle risorse messe in campo, avremmo forse avuto di Garibaldi e della sua vita un’immagine, se pur condensata in 52 minuti di trasmissione, certamente degna della sua fama. Invece, salvando l’eccellente fotografia, abbiamo dovuto costatare la pessima scelta degli attori che avrebbero dovuto interpretare la nobile e intensa figura dell’eroe dei due mondi, oltre ad assistere all’inspiegabile costruzione di una scena in cui un Garibaldi sud-americano in tenuta semi-adamitica invita Anita a sparare con una pistola contro la croce posta sul campanile di una Chiesa! Ma ciò che colpisce di più è stata l’enorme carenza di informazioni a livello storico, incredibilmente escluse dal racconto in luogo di episodi minori (Bronte) e di una morbosa attenzione alla vita privata del Generale, già d’altronde preannunciata nel titolo del documentario. Tra le tante omissioni, clamoroso l’approfondimento sulle poche vittime garibaldine (30 circa) della battaglia di Calatafimi senza neppure citare quella di Milazzo, con i suoi centinaia di caduti garibaldini (800 tra morti e feriti).

 Non conosciamo quale sia stato lo scopo di questa operazione, ma restiamo perplessi di fronte a una tecnica di rappresentazione che ha “utilizzato strumentalmente” i brevissimi interventi degli studiosi del Risorgimento (ivi compreso il pronipote dell’eroe) per screditare un grande e glorioso personaggio della storia italiana e mondiale. Con Garibaldi si sono oltraggiati quanti, a rischio della propria vita, lo avevano seguito nelle varie campagne per l’indipendenza italiana. Si può avere un facile riscontro di questa strumentalizzazione valutando lo spazio vocale riservato al “commentatore fuori campo”: decisamente prevalente rispetto a quello degli intervistati, come risulta dalla trascrizione di Monica Simmons, qui sotto riportata, e dal link del filmato nella versione in inglese.

 Paolo Macoratti

 

FILMATO AUSTRIACO (Versione inglese) – https://vimeo.com/327569974/f28415acca

COMBATTENTE PER LA LIBERTA’ E DONNAIOLO

Giuseppe Garibaldi, un eroe di guerra per la libertà dell’Italia.

 

FULVIO CONTI (storico)

Garibaldi è l’uomo che ci ha unito. Garibaldi per decine di anni ha combattuto per unificare l’Italia. E in Italia è riverito come se fosse un santo. Occorre distinguere quanto è riuscito a realizzare e quanto di tutto questo è mito.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

Garibaldi ha  una parte bella e una parte oscura. Era un rivoluzionario che manipolava i media.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

In quel tempo la gente era affascinata da Garibaldi.

 

COMMENTATORE

Era un maschio che era tutto per le donne.

 

LUCY RIALL (storica)

Ha avuto tante storie d’amore che rasentavano il patologico per il numero di donne che ha avuto.

 

COMMENTATORE

Era un campione, nel suo tempo, che anticipava i diritti politici della donna. Un uomo di tante contraddizioni.

 

COMMENTATORE

Montevideo 26 marzo 1842

Anita e Giuseppe Garibaldi, il giorno dopo la loro prima notte di matrimonio.

Era stato condannato a morte in Italia come rivoluzionario e aveva fatto la stessa cosa in sud America. Anita era nata in Brasile e aveva appoggiato la rivoluzione contro la dinastia imperiale. Dopo tre anni vissuti nel peccato si erano sposati. Anita era l’amore della sua vita. Anita aveva seguito il marito in battaglia contro l’oppressione da parte dei sistemi politici dell’aristocrazia e contro la Chiesa. Torniamo in Italia. Chi era veramente Giuseppe Garibaldi? Garibaldi, figlio di un semplice pescatore, era vissuto vicino al porto. Da giovane amava l’avventura, il mare e viaggiare, cose che sarebbero state importanti per tutta la sua vita. Disegnava persino un’onda sotto la sua firma. In Genova durante i suoi anni giovanili aveva partecipato a dei moti rivoluzionari per la costituzione di una repubblica italiana indipendente e per questo era stato condannato a morte in contumacia. Garibaldi scappò da Nizza (1835) per l’America giungendo a Rio de Janeiro dove formò una Legione Italiana e iniziò una nuova battaglia combattendo come corsaro per la repubblica del Rio Grande do Sul (1837). Ci fu una battaglia a Rio della Plata. Garibaldi aveva guadagnato la reputazione di un intrepido combattente nei fiumi, nelle paludi e nelle foreste, reputazione che si era diffusa in tutta l’Europa.

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

La battaglia più importante fu quella di San Antonio del Salto. Una piccola forza di circa 190 uomini sono riusciti a sconfiggere qualche migliaio di soldati nemici

COMMENTATORE

Questo eroe sembrava capace di compiere miracoli e qui cominciano ad emergere le prime contraddizioni della sua biografia. Una di queste riguarda la storia dell’orecchio.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

In sud America una delle punizioni per chi rubava i cavalli era quella di tagliare l’orecchio. Garibaldi aveva rubato cavalli perciò perse un orecchio; in conseguenza di ciò si fece crescere i capelli per coprire l’orecchio.

 

COMMENTATORE

Garibaldi: un ladro di cavalli! Però c’è una versione più eroica

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

Garibaldi non perse nessun orecchio: era una voce che girava. Durante una battaglia in sud America fu ferito nel collo un po’ sotto l’orecchio, passando sotto la gola; soffrì moltissimo, ma non perse mai un orecchio.

 

COMMENTATORE

Qual’é la versione giusta, visto che le sue orecchie erano sempre coperte?

Ci sono molte leggende e contraddizioni nella biografia di Garibaldi: si narra che avesse partecipato a 67 battaglie e più di duecento duelli. La sola sua presenza poteva influenzare i suoi nemici ad arrendersi. Sorprendentemente questo incredibile uomo era alto solo 1 metro e sessantatre centimetri

 

COMMENTATORE

Dopo tredici anni d’esilio Garibaldi ritornò in Patria nel 1848. In quell’epoca Nizza apparteneva al Regno Sabaudo del Piemonte; quest’ultimo divenne poi l’Italia moderna. La violenza delle rivoluzioni del quarantotto aveva infiammato l’Europa. L’Italia era frazionata nel territorio: il Re di Savoia regnava su Piemonte e Sardegna; il Papa regnava e controllava gli stati papali e altri territori erano dominati da potenze straniere: l’Austria dominava il lombardo-veneto e qualche altro ducato; i Borboni spagnoli governavano la Sicilia, il sud e Parma. Nel nord ci furono rivolte contro gli Asburgo che chiedevano l’annessione di questi territori al Piemonte. I Rivoluzionari ebbero il loro primo successo a Milano e l’esercito austriaco fu costretto a lasciare la città. A torino il Re Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria e prese il comando del movimento di unificazione. La sua intenzione era quella di rendere l’Italia uno Stato indipendente sotto l’egida del Piemonte. Garibaldi chiese udienza al Re e gli offrì i suoi servigi. Tredici anni prima quello stesso Re lo aveva condannato a morte; ora lo aveva perdonato.

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

Garibaldi avrebbe fatto sicuramente un patto col diavolo pur di raggiungere il suo scopo, condiviso con molti Italiani che lo avevano seguito.

 

COMMENTATORE

Lo scopo di Garibaldi era quello di unire Roma capitale all’Italia ma il suo approccio fu insolente :”Mi permetta di offrire i miei servigi da Generale”. Voleva essere nominato Generale ma Carlo Alberto non prese la briga di rispondergli e lo inviò in un fronte secondario, perché si aspettava da lui che formasse volontari a Bergamo. Si aspettava che il rivoluzionario professionista americano si facesse valere nella sua Patria. Garibaldi lo fece al Lago Maggiore: con un’azione temeraria catturò due piroscafi usati per fare la spola dalla riva della Svizzera neutrale a quella italiana ed ebbe alcuni scontri con la guarnigione austriaca. La città di Luino è dove Garibaldi affrontò il test. Lui e i suoi uomini si scontrarono con gli Austriaci. Lì si svolse una battaglia e il racconto degli eventi che seguirono è contrastante

 

CHRISTIAN ORTNER (storico militare)

La battaglia ebbe successi da ambedue le parti. Alla fine gli Austriaci considerarono la situazione giunta a un punto morto. Certamente la situazione era ben diversa alla luce del mito di Garibaldi. Nella testa di Garibaldi questo piccolo scontro fu considerato una grande vittoria.

 

COMMENTATORE

E questa vittoria è la prima battaglia vinta sul territorio italiano; ma politicamente non ha avuto nessun effetto.

Carlo Alberto perse la battaglia contro gli Austriaci: a Custoza i suoi soldati furono duramente sconfitti. Gli Austriaci ripresero Milano e lo Stato Sabaudo capitolò. Un po’ più tardi il Re Carlo Alberto abdicò e fu rimpiazzato da suo figlio Vittorio Emanuele II. Il passaggio di V.E. al trono e gli sforzi di Garibaldi sono strettamente correlati. La rivoluzione del ’48 esplose a Roma; Garibaldi vide il suo sogno avvicinarsi per la capitale di un’Italia libera. Pio Nono scappò dagli Stati papali e gli venne dato asilo nel Regno delle due Sicilie. Il 9 febbraio del 1849 Giuseppe Mazzini proclamò la Repubblica Romana in Campidoglio. Mazzini aveva due scopi: unificare l’Italia e abolire la monarchia. Le idee repubblicane di Mazzini coincidevano con quelle di Garibaldi; i due uomini avevano bisogno l’uno dell’altro benché fossero lontani dall’essere amici.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

La distanza tra i due si vede nel loro approccio nel modo di operare. Garibaldi nel 1849 pensava che l’unica maniera per raggiungere l’unità e la liberazione dell’Italia dovesse realizzarsi con le armi.

 

COMMENTATORE

Mazzini pensava che la soluzione dovesse raggiungersi pacificamente attraverso una Costituzione repubblicana basata sulla libertà di stampa e della Chiesa.

 

MARA MINASI (storica)

Fu una Costituzione esemplare di un altissimo profilo giuridico. Si riconosceva da tutte le parti essere una effettiva, moderna e progredita costituzione per il diciannovesimo secolo in Europa.

 

COMMENTATORE

Più tardi, un secolo dopo, le norme basilari della Costituzione di Mazzini furono incluse nella legge italiana ancora vigente. Ma la Repubblica Romana fu una costruzione fragile perché mancava un solido apparato difensivo dell’esercito . Si aspettava da Garibaldi che ne costituisse uno.

 

MARA MINASI (storica)

Garibaldi aveva con sé 400 uomini ma molti altri lo raggiunsero attratti dal suo carisma. Le descrizioni dei suoi contemporanei lo raffigurano con una criniera come quella di un leone e gli occhi chiari che mandano scintille.

 

COMMENTATORE

Come leader di questo esercito rivoluzionario si insediò nel suo quartiere generale sul Gianicolo, una collina sopra la città, da dove guiderà la sua prima battaglia contro la Chiesa cattolica.

Dal suo esilio il Papa voleva restaurare il suo Regno. Gli Austriaci venivano dal nord, i Borboni dal Sud, gli Spagnoli dall’Ovest. I Francesi avevano portato con loro un’artiglieria molto avanzata. Dopo l’arrivo dei Francesi Garibaldi si rese conto che per tenere Roma si doveva confrontare con una forza superiore e sarebbe stato impossibile. Comunque nella pineta del Gianicolo condusse  una battaglia senza speranza; 800 dei suoi uomini morirono. Negli ultimi giorni di Giugno del 1849 Garibaldi combatté con disperazione resistendo a Villa Spada, suo ultimo quartier generale. In quel momento critico arrivò Anita da Nizza.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

Alessandro Dumas nella biografia di Garibaldi descrive il drammatico arrivo di Anita. Garibaldi rimase alquanto sorpreso; l’abbracciò e poi disse ai suoi: “Vi presento mia moglie; abbiamo un altro combattente tra noi”. Ma in realtà niente di tutto questo è vero perché Anita non era in condizione di partecipare alla battaglia; in quel momento era incinta e soffriva di una grave forma di malaria.

 

COMMENTATORE

Dopo due mesi di dure battaglie i Francesi riuscirono a prendere Roma in favore di Pio IX. La repubblica di Mazzini collassò. Garibaldi lasciò Roma in fretta affrontando un viaggio tortuoso verso l’Adriatico, a causa delle condizioni della moglie. Nell’autobiografia, Garibaldi ha glorificato le circostanze della sua fuga con una splendida descrizione di sua moglie. Anita indossava la camicia della Legione, pantaloni da uomo e stivaloni di un cuoio scintillante. Le chiese di tagliare i capelli per sembrare un uomo.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

Ancora una volta è stato enfatizzato l’aspetto virile di Garibaldi per sottolineare le sue virtù morali e il coraggio indomito.

 

COMMENTATORE

Ma la fatica era troppo grande per lei; infatti l’8 agosto 1849 morì vicino a Ravenna.

 

LUCY RIALL (storica)

Per spiegare questo, è importante sapere che in Italia l’idea di un martire era incredibilmente importante nelle rivoluzioni. Questo permetteva ai rivoluzionari italiani di fare appello ai cattolici; e questo era il linguaggio che i cattolici capivano.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

L’idea era quella di spiegare che il sacrificio e il martirio di Anita lo fosse anche di Garibaldi. In qualche modo la morte di Anita è stata interpretata come il sacrificio di Garibaldi.

 

COMMENTATORE

I Fascisti italiani si sono riappropriati di questo mito; Benito Mussolini ha fatto erigere una statua di Anita a Roma dedicata a una donna che ha sacrificato la sua vita e del suo bambino per la Patria di suo marito.

 

LUCY RIALL (storica)

Quando Anita muore io credo che Garibaldi fosse sinceramente distrutto. Se si leggono le sue lettere e quello che ha fatto in seguito si capisce che Garibaldi soffriva realmente.

 

COMMENTATORE

Garibaldi per cinque anni abbandonò l’Italia e viaggiò negli oceani del mondo, godendosi la sua indipendenza. Nel 1855 ritornò in Italia e grazie ad una eredità comprò metà dell’isola di Caprera. Lì Garibaldi costruì una villa bianca in stile sud americano. Niente era cambiato nella scena politica italiana. Mentre i preti condannavano i rivoluzionari senza Dio, molte donne andavano a Caprera per venerare questo carismatico ribelle. Una di queste era Esperance Von Swartz

 

SILVIA CAVICCHIOLI (Storica)

Esperance aveva alle spalle due matrimoni, un figlio, ed era ricca. Colta e raffinata, scrittrice e giornalista, parlava molte lingue. Era quindi inevitabile che queste due personalità si incrociassero.

 

COMMENTATORE

Esperance supportò Garibaldi anche economicamente. In cambio le fu concesso di scrivere, prima di Dumas, una biografia di Garibaldi. Garibaldi chiese varie volte la mano di Esperance -” Sono già stata sposata due volte e non sono fatta per il matrimonio”- ma lo rifiutò sempre. Garibaldi aveva difficoltà ad essere rifiutato e così trovò consolazione altrove. Nove mesi più tardi, la sua cameriera Battistina Ravello diede alla luce una bambina; comunque Garibaldi non era presente alla nascita.

Ancora una volta esplosero combattimenti nel nord Italia. Nel 1859 Garibaldi sconfisse gli Austriaci nel Ferrarese. Fu un anno turbolento per lui.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

Si può dire che la sua vita privata, senza dare un giudizio troppo severo, sia stata caotica. Nell’estate del ’59 si era follemente innamorato di una giovane donna, Giuseppina Raimondi, ma allo stesso tempo chiese la mano di altre due donne alle quali dichiarò il suo amore, mentre continuava il suo rapporto con la Esperance: una tedesca, una sua amica, e la contessa italiana Maria Della Torre.  C’erano donne da tutte le parti e dichiarava amore a tutte.

 

COMMENTATORE

In ultimo la diciottenne Giuseppena Raimondi figlia di un nobile che possedeva grande quantità di terreni, cedeva agli sforzi romantici di Garibaldi e accettava di sposarlo. Mentre il prete celebrava la cerimonia, uno degli Ufficiali di Garibaldi  tentò, in fretta e furia, di comunicargli un messaggio importante; ce l’avrebbe fatta a consegnarlo? Troppo tardi! Garibaldi rimproverò l’uomo per la maniera impropria di interrompere la cerimonia ma seppe qualcosa che avrebbe dovuto sapere prima della cerimonia: Giuseppina Raimondi era incinta. Il padre del bambino era uno dei suoi ufficiali. Benché Garibaldi fosse diventato padre di un bambino illegittimo, aveva alte aspettative sulla moralità delle donne. Anni dopo lui scrisse:” Io pensavo di aver sposato una donna nobile invece era una puttana”. Per 20 anni provò invano ad annullare il matrimonio

A questo punto iniziò la fase decisiva dell’unificazione italiana: la Lombardia venne  annessa al Piemonte con l’appoggio della Francia e il Veneto rimaneva sotto l’Austria. Per il suo aiuto erano stati donati alla Francia Nizza e Savoia. Camillo Benso conte di Cavour, Primo ministro del Piemonte e della Sardegna, cedette la casa natale di Garibaldi e per questo divenne suo acerrimo nemico.

Poco dopo, nei primi giorni di maggio del 1860, Garibaldi preparò una spedizione per la Sicilia che si può considerare storica, con una forza di oltre mille uomini per insorgere contro i Borboni Spagnoli. L’intento di Garibaldi era quello di appoggiare gli insorti con lo scopo di realizzare l’unità d’Italia iniziando dal profondo sud. Garibaldi con la sua spedizione di volontari approdò a Marsala. Questo leggendario esercito in inferiorità numerica si confrontò con un esercito di 20.000 soldati. Garibaldi aveva bisogno di un miracolo, oppure l’aiuto di potenze straniere.

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

L’’esercito britannico svolse un ruolo importante per questi mille volontari: aiuto economico e protezione. Due piroscafi aspettarono di sbarcare mille volontari garibaldini; due navi da guerra inglesi gli permisero di entrare nel porto, proteggendoli in questa maniera dagli attacchi della Marina Borbonica.

 

FULVIO CONTI (storico)

L’esercito britannico aveva l’interesse strategico di creare un Regno italiano e considerava i Borboni Spagnoli nemici. Garibaldi godette di un importante aiuto britannico.

 

COMMENTATORE

Gli Inglesi controllavano il commercio dei vini di Marsala e non erano affatto contenti che i Borboni applicassero alti dazi. Ma gli Inglesi sapevano che un altro prodotto siciliano era più prezioso del vino: lo zolfo. L’isola soddisfaceva  l’80% della richiesta globale di zolfo. In quel tempo, lo zolfo, insieme a sale e carbone erano i componenti essenziali per la produzione di polvere da sparo.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

L’importanza della solfatara di allora era paragonabile a una miniera di uranio di oggi: tutte le importanti industrie belliche lo usano.

 

COMMENTATORE

Dopo l’arrivo di Garibaldi sulla costa occidentale, le sue truppe avanzarono verso Palermo. Molti volontari dei vari villaggi incontrati sulla loro strada lo raggiunsero. In particolare squadre di “Picciotti”, ragazzi che oggi sono considerati mafiosi di bassa lega. A Salemi, più o meno sulla loro strada, Garibaldi si auto-dichiarò Dittatore dell’isola. Comunque, come rivoluzionario, aveva rigettato sempre qualsiasi titolo di autorità.

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

Malgrado Garibaldi fosse socialista, era repubblicano, un po’ monarchico, un po’ fascista, perché si era auto dichiarato  dittatore delle due Sicilie.

 

COMMENTATORE

Un po’ più tardi le sue truppe si radunarono su una collina vicino a Calatafimi dove si scontrarono con un esercito due volte superiore per numero. Pare che qui Garibaldi abbia con emozione dichiarato il grido di battaglia “Qui si fa l’Italia o si muore!”. Ci si aspettava che le future generazioni di studenti avessero imparato a valutare questa battaglia. Il film “Viva l’Italia” ha raccontato la saga dell’eroe. I Borboni tenevano la cima della collina. La situazione era disperata per Garibaldi. Malgrado ciò le camice rosse attaccarono e furono immediatamente respinte. E poi la sorte cambiò. Con un coraggio inimitabile i Garibaldini iniziarono una controffensiva costringendo i Borboni a ritirarsi. E’ verità o finzione? Un monumento molto dimenticato commemora questa simbolica battaglia. Andare a vederlo è molto istruttivo. Per cinquant’anni Gerolamo Amato ha custodito questo memoriale; lui stesso fornisce un’introduzione in questo luogo sacro della storia della fondazione d’Italia. Questa lapide è dedicata agli uomini caduti; qualcosa salta fuori subito: mentre varie migliaia hanno partecipato a questa battaglia, pochi sono morti qua.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

I morti in battaglia furono 12 però il conto visivo era di 30 e non necessariamente avevano partecipato attivamente alla battaglia stessa. Per esempio, uno morì di tetano dopo essere stato ferito, perché un suo compagno, per fermare il sangue, lo aveva tamponato con una moneta. Un altro fu ferito nella parte inferiore del braccio e il chirurgo l’aveva cucito in modo provvisorio; mentre con passione suonava la fisarmonica per celebrare la battaglia, i punti si sono aperti e lui è morto dissanguato. Questo uomo è contato come caduto a Calatafimi benché fosse morto due giorni dopo, e così altri 18 in circostanze simili.

 

COMMENTATORE

Il guardiano Girolamo racconta la storia in modo diverso rispetto ai testi scolastici e al film:

“C’erano 6.000 Borboni e circa 3.000 garibaldini. Si suppone che ci fossero state frodi e corruzione. Un anello d’oro fu offerto al Generale dei Borboni Landi dicendogli che valeva  14.000 ducati. Landi lo prese e diede ordine ai suoi di ritirarsi. Questo gesto fece vincere la battaglia a Garibaldi. Ma al generale Landi la cosa non gli andò bene. L’anello valeva solo 14 ducati. Quando Landi andò in banca per prendere i soldi, ebbe un infarto, morì di dolore”.

Girano delle storie su Garibaldi, che usasse sistematicamente la corruzione. Un suo scrigno conteneva alcune donazioni di Massoni Inglesi e Nord Americani. Gruppi di donne inglesi avevano raccolto fondi per il loro eroe e allestito dei banchi di vendita. Ci sono prove che quei fondi siano stati raccolti per finanziare la spedizione dei Mille senza sapere poi per cosa siano stati usati. Si suppone che le ricevute siano state inviate dalla Sicilia a Torino ma questa nave affondò vicino Capri e nemmeno piccoli pezzi del relitto furono trovati. Questo ha dato adito a speculazioni fino ad oggi e cioè che una esplosione intenzionale abbia distrutto la nave con tutti i suoi documenti.

Tra i seguaci di Garibaldi c’erano giornalisti e corrispondenti di guerra che lo veneravano. Una di questi giornalisti era l’inglese Jessie White Mario, membro di una famiglia facoltosa, che raccontava storie di guerra e affari sociali. Come infermiera aveva accompagnato Garibaldi in quattro campagne

 

LUCY RIALL (storica)

Durante le sue battaglie Garibaldi dedicava sovente spazio di tempo per lavorare con i giornalisti per cui, piuttosto che lasciarli mentre saliva la penisola, lasciava indietro metà del suo esercito.

 

COMMENTATORE

I corrispondenti di guerra si occupavano di una grande quantità di servizi d’intelligence; un corrispondente ungherese  diede a Garibaldi informazioni strategiche decisive circa le posizioni dell’esercito dei Borboni vicino a Palermo

 

LUCY RIALL (storica)

Garibaldi era particolarmente abile a trovare la posa per i fotografi e ad essere fotografato, così da permettere una larga diffusione della sua immagine.

 

COMMENTATORE

Grazie ai giornalisti, al suo team di pubbliche relazioni al servizio d’intelligence, Garibaldi riuscì a bypassare l’esercito borbonico e guadagnare le colline a sud di Palermo senza opposizione. Palermo era davanti a Lui. Nella città di Palermo, ad oggi, il nome di Garibaldi occupa un posto speciale.

Il mimo Coticchio con il suo spettacolo di burattinaio anima la figura di Garibaldi. In uno di questi spettacoli teatrali, una scena ben conosciuta è quella nella quale la notte prima dell’attacco Garibaldi con il suo generale Bixio guardando dall’alto la città di Palermo, dice:” Bixio, o a Palermo o all’inferno”. Per Garibaldi Palermo non fu un inferno.  Le sue truppe marciarono verso il Ponte dell’Ammiraglio; velocemente riuscirono ad occupare tutti i posti strategici della città. Si suppone che le camice rosse di Garibaldi siano passati per questa strada (inquadratura di una strada)

 

UNA PALERMITANA

Garibaldi è venuto da qui ma solo con il permesso della mafia.

 

COMMENTATORE

Garibaldi stabilì il suo quartier generale al Palazzo Pretorio. Da quel balcone giurò che avrebbe resistito. Per tre giorni si scatenò l’inferno a Palermo; i soldati Borbonici rimasero intrappolati nelle strade strette e nelle piazze. La gente aspettava questa rivoluzione e urlava :”I topi, i topi”. E riferendosi ai Borboni che scappavano, urlavano :”Catturate questi topi con i gatti”. Dopo di che i Borboni si ritirarono verso la fortezza del Castello a Mare, e da lì bombardarono la città.

Nella distante  Napoli il Re Francesco II e sua moglie bavarese continuavano a considerarsi i governatori della città. Il bombardamento causò seicento morti; i pionieri della fotografia di guerra hanno fotografato questa distruzione. In ultima analisi i Borboni non riuscirono a riconquistare la città. Qualche giorno dopo il mondo apprese con stupore le notizie sui giornali e Ferdinando Lanza chiese a Garibaldi una tregua; gli Inglesi erano felici di essere utili e a tale scopo misero a disposizione le loro navi ancorate a Palermo per firmare la capitolazione. Le truppe di Garibaldi lasciarono l’isola senza lottare.

 

LORENZO DEL BOCA (pubblicista)

Solo la corruzione può giustificare che i Garibaldini abbiano lasciato l’isola senza combattere e che i governanti siciliani per risolvere i loro problemi abbiano sposato la causa della rivoluzione. Questa è l’unica spiegazione per capire come questo Regno sia stato distrutto in un tempo relativamente breve. Come poteva essere conquistato senza una battaglia?

 

COMMENTATORE

Garibaldi divenne così in una notte la massima autorità regale in Sicilia. Questo aumentato potere ha causato uno degli episodi più oscuri della sua biografia. In cambio per aver preso parte alla lotta contro i Borboni promise  riforme agrarie ai contadini e i contadini senza terre lo presero in parola. Dopo la partenza dei Borboni, i contadini deposero le armi e occuparono vasti possedimenti terrieri. All’est del monte Etna ci furono dei sanguinosi scontri nella città di Bronte. Delle bande armate incitarono alla violenza; ne seguì una vera caccia all’uomo. I proprietari terrieri e i loro notabili, conniventi con la mafia, furono gettati in strada; i contadini superarono il limite. Nel nome di Garibaldi 15 uomini furono assassinati. Un buon numero di queste vittime era innocente. A quel tempo un enorme  possedimento apparteneva ad una donna inglese; la nipote dell’Ammiraglio Nelson gestiva una enorme possedimento intorno alla città. Il suo notaio Ignazio Canata fu portato in istrada, castrato e grigliato vivo su due aste di ferro.

Garibaldi, quando apprese la notizia di questa atrocità, divenne furioso. L’ambasciatore inglese John Goodwin lo informò che queste enormi brutalità erano state consumate sul territorio inglese ed esigé una risposta. All’improvviso il rivoluzionario sociale si trovò in una situazione molto imbarazzante. Da quale parte doveva stare? O dai proprietari terrieri o da quelli senza terreni? Infine ordinò a Bixio di sedare la rivolta dei contadini. Il generale di Garibaldi prese delle misure drastiche in favore dei proprietari terrieri. Bixio diede ordine di allineare 5 di questi sospettati rivoltosi contro il muro della chiesa di Bronte. Ancora una volta pagarono un innocente disabile mentale e un notaio. Nella Regione dove erano avvenuti questi fatti, 37 di quei ribelli furono poi condannati all’ergastolo. Dopo di che la pace fu ristabilita.

Garibaldi dovette continuare la sua campagna senza l’aiuto dei contadini e con 3500 soldati sbarcò in Calabria. Marciò attraverso Reggio Calabria, Cosenza, Salerno e infine giunse a Napoli.

Francesco II e la moglie bavarese avevano capito che il loro tempo stava terminando e il 5 settembre scapparono. Due giorni dopo Garibaldi entrò a Napoli.

Il vittorioso Garibaldi mostrò la sua gratitudine per i fondi ricevuti dagli Inglesi dando istruzioni per la costruzione di una chiesa anglicana. Francesco, che era leale al Papa, aveva sempre rifiutato di attuare questo progetto. Garibaldi stava diventando sempre più spericolato man mano che il suo potere aumentava. In una lettera aperta al Re aveva chiesto le dimissioni di Cavour da ministro del Piemonte e organizzò un plebiscito per l’annessione dell’Italia del sud al Piemonte. Però il Re Vittorio Emanuele II arrivò prima in quanto pensò che Garibaldi avesse ecceduto nell’esercizio della sua autorità. Vittorio Emanuele e il suo esercito cominciò a marciare verso Napoli. A Teano avvenne l’incontro tra i due che fu descritto come un’azione di commando, ma che non fu altro che la richiesta a Garibaldi di ritirarsi dalla sua azione.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (storica)

Questa rappresentazione ci mostra il Garibaldi obbediente, ma la storia è cosa ben diversa. A Teano Garibaldi realizza che la sua campagna è arrivata al termine e quindi ritorna a Caprera molto deluso.

 

COMMENTATORE

Il combattente per la libertà ritornò con malumore nella sua isola e dal quel momento diventerà un esiliato politico. Mentre cercava di coltivare nel terreno roccioso di Caprera, l’Italia si era unificata senza il suo contributo. Nel 1861 si proclamò il Regno d’Italia e nacque uno Stato. Nonostante ciò, ancora due macchie: il Papa controllava Roma e gli Stati della Chiesa e gli Austriaci il Veneto. In quel periodo con il successo della spedizione dei Mille e dell’eroismo di Garibaldi si produssero soldi. L’album dei Mille, con i ritratti dei partecipanti, simile agli album attuali dei collezionisti,  vennero venduti per commemorare degli eventi sportivi. Roma non era ancora capitale d’Italia; Vittorio Emanuele cercava di negoziare una soluzione con l’aiuto della Francia. Ma Garibaldi aveva altri piani. Lui ignorava il clima politico e voleva prendere Roma da solo. Nel 1862 in Calabria raccolse un piccolo esercito mal armato pensando che potesse far miracoli. Il Re Vittorio Emanuele fu costretto a inviare truppe governative per fermare Garibaldi.

 

FULVIO CONTI (storico)

E’ mia opinione che questo fu un serio sviluppo nella storia d’Italia che merita un appellativo: guerra civile. Ad Aspromonte le truppe rege misero in un angolo Garibaldi e i suoi uomini. Lui fu colpito ad una caviglia e fatto prigioniero.

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

Non avrebbe mai potuto immaginare che un connazionale avrebbe potuto sparargli.

 

COMMENTATORE

Lo stivale col buco è considerato uno dei cimeli più importanti di Garibaldi

Cinque anni più tardi, nel 1867, Garibaldi raccolse una nuova forza di 12.000 uomini per una marcia su Roma. Ma come nel 1848  il papa chiamò in soccorso truppe straniere.

 

FULVIO CONTI (storico)

Garibaldi cercò ancora una volta di arrivare al fatto compiuto, avendogli consentito il Governo libertà di azione. Nel frattempo fra la Francia e l’Italia fu raggiunto un accordo, ma la valutazione di Garibaldi risultò ancora una volta errata.

COMMENTATORE

Roma o Morte era il suo motto proclamato; in quel momento Garibaldi aveva 60 anni. Comunque i suoi uomini non ce la fecero; il Comandante aveva messo in conto la morte. Garibaldi perse la sua reputazione come guerriero invincibile una volta per tutte a Mentana, alle porte di Roma.

 

CHRISTIAN ORTNER (storico militare)

Garibaldi fu circondato e quando un esercito rivoluzionario è assediato, l’aspetto tragico è che una parte di questo perde lo spirito patriottico. Garibaldi ebbe grossi problemi a tenere i suoi sodati in linea ordinata dietro di lui. I Francesi erano armati con i fucili Chassepot, le più moderne armi da fuoco in quel tempo in Europa. Gli Chassepot potevano sparare da 6 a 8 colpi al minuto, mentre solo due o tre colpi potevano essere sparati dai caricatori dei fucili garibaldini. Garibaldi doveva guidare i suoi, armati di fucili antiquati, mentre venivano decimati. Finalmente nel 1870 le truppe francesi si ritirarono da Roma, in quanto erano richieste per la guerra contro la Prussia. Lo scopo di fare di Roma la capitale d’Italia era raggiungibile. Mentre il Concilio Vaticano primo era in corso, Vittorio Emanuele fece entrare le sue truppe a Roma, che divenne Capitale d’Italia.

Garibaldi aveva realizzato a distanza il suo sogno. Si era totalmente ritirato a Caprera. Dopo che la sua governante Battistina era tornata a Nizza, Garibaldi sposò la sostituta Francesca Armosino

 

GIUSEPPE GARIBALDI (pronipote)

Francesca Armosino è considerata una donna brutta ma è quello che lui voleva perché si occupasse dei figli di Anita, Comunque Francesca partorì altri tre figli.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (Storica)

In generale il ruolo delle donne in Europa era completamente subordinato agli uomini e il loro ruolo principale era quello di gestire la casa, fare figli e farli crescere.

 

COMMENTATORE

Garibaldi condusse una vita bucolica a Caprera; chiamò due dei suoi 4 asini come i suoi peggiori nemici: Pio IX e Napoleone III. Lui visse sull’isola secondo il suo ideale per l’Italia: un miscuglio di semplicità rurale e una società senza classi e libertà sessuale, però solo per gli uomini. Sua moglie si sforzò molto di mantenere il mito dell’uomo che si era fatto da solo. Questo costituì anche un affare. Vendeva infatti delle ciocche di capelli del suo eroe e le unghie dei piedi e delle mani. Sebbene alla fine della sua vita avesse svolto il ruolo di patriarca, le sue opinioni politiche circa le donne erano lontane da essere conservatrici.

 

SILVIA CAVICCHIOLI (Storica)

Garibaldi nel suo famoso discorso d’introduzione sulle sofferenze delle donne, diede questa spiegazione: “non può esistere né modernità né progresso quando metà dell’umanità è tenuta schiava dall’altra metà”.  Quelle furono parole molto forti. La sua denuncia della sofferenza delle donne fu formulata nel 1869, e solo 77 anni dopo divenne una legge italiana.

 

COMMENTATORE

Alla fine della sua vita Garibaldi non sentì il bisogno di lasciare una eredità spirituale; il suo desiderio era di essere cremato e le sue ceneri disperse in mare. Garibaldi morì il 2 giugno 1882 all’età di 75 anni. Il suo ultimo desiderio non fu rispettato. Il suo corpo fu imbalsamato e sepolto a Caprera. Così gli fu impedito di decidere sia in vita che in morte.

Era un avventuriero che voleva realizzare le sue idee politiche. Un uomo che ha combattuto più di ogni altro per l’unità d’Italia.

 

Riceviamo dal nostro Socio Onorario Leandro Mais una proposta che interessa il ricordo storico del 170° anniversario della caduta della Repubblica Romana, culminata con l’uscita da Roma il 2 luglio 1849, da Porta San Giovanni, di Garibaldi e dei Garibaldini.

Questa epigrafe, che riproduciamo in fondo all’articolo, su disegno dello stesso Mais, è in effetti opera ideata, mai eseguita dal Comune, del famoso scrittore romanista Gigi Huetter che la pose come iscrizione nella sua opera monumentale dedicata alla ricerca e trascrizione di tutti i testi delle lapidi di Roma.

Saremmo ben lieti se in questa ricorrenza del fatto storico suddetto si potesse ottenere dal Comune di Roma il permesso di poter mettere questo ricordo nella parte esterna della Porta S. Giovanni che guarda la via Appia.

 

GARIBALDI E LA FORTUNA MILIONARIA D’UN UMILE FRANCOBOLLO

di Leandro Mais

     Uno degli ultimi decreti dittatoriali di Garibaldi a Napoli riguarda la diminuzione del prezzo della spedizione dei giornali. Con questo provvedimento l’Eroe stabiliva che l’unico mezzo di informazione popolare  – ovvero il giornale – avesse un costo molto più basso. Il costo per la spedizione di un giornale, al tempo dei Borboni, era di ½ Grana; con questo provvedimento fu portato a ½ Tornese (il valore di 1 Tornese corrispondeva ad ¼ di Grana, per cui ½ Tornese valeva 1/8 di Grana).

     Il tempo della Dittatura garibaldina era alla fine e il lavoro che occorreva per modificare il vecchio francobollo borbonico  era notevole: non solo si doveva cambiare il valore ma anche eliminare lo stemma borbonico che figurava nel centro dei 100 valori della tavola da ½ Grana. Pertanto si decise soltanto di cambiare il colore in bleu-savoia (tutti i francobolli del Regno Napoletano erano di color rosa polvere),  togliendo soltanto la G di grana e sostituendola con una T di tornese. Naturalmente l’operazione, seppure semplificata, richiese un notevole tempo per cui il nuovo francobollo per giornali vide la luce soltanto il 6 novembre 1860 (prima data conosciuta,  ovvero tre giorni prima della partenza di Garibaldi per la sua Caprera).

     Con la nomina di Farini alla Luogotenenza delle Terre del Sud si procedette immediatamente alla definitiva trasformazione del francobollo, sostituendo lo Stemma Borbonico con la Croce Sabauda. Per tale operazione furono scalpellati quindi uno per uno i 100 Stemmi Borbonici rimasti nella tavola (precedentemente trasformata  nel solo valore e colore), sostituendoli con la Croce Savoia (il colore era sempre bleu come il precedente). Questo nuovo francobollo fu emesso il 6 dicembre, un mese dopo il precedente.

     A questi brevi cenni storici aggiungo qualche notizia di carattere filatelico. Tutti i vecchi collezionisti  sanno che il primo francobollo è conosciuto col nome di “1/2 Tornese Trinacria  o “della Dittatura”, mentre il secondo “1/2 Tornese Crocetta” o della “Luogotenenza”. Il brevissimo tempo in cui fu usato il primo (1/2 T Trinacria ) ha fatto si che questo francobollo, dal costo bassissimo, divenisse subito uno dei pezzi più rari della filatelia mondiale. Un altro fattore che contribuì alla sua rarità fu quello del suo uso, ovvero dall’essere applicato metà sul giornale e l’altra metà sulla fascetta, per cui, nel liberare il giornale dalla fascetta, si provocava la rottura del francobollo.

     Per meglio illustrare quanto detto  chiudo queste brevi note con le foto di questi due rari esemplari  (ambedue allo stato di usati) ricercatissimi.  

 

LA FORTUNA ARTISTICA DI UNA BELLA FOTOGRAFIA DI GARIBALDI

   

di Leandro Mais

Questa volta per i miei amici garibaldini ho scelto una mia ricerca che, partendo da una bella fotografia di Garibaldi, mi ha portato a scoprire la riproduzione in 9 differenti oggetti. Che Garibaldi sia stato una figura molto fotogenica, ne siamo tutti convinti e ne erano convinti tutti i fotografi dell’epoca, ma dobbiamo in questo caso ammettere che la bella riuscita artistica di questa foto, sia anche merito dell’autore : il pittore  Gustave Le Gray (n. Villiers-le-Bel 30.8.1820  m. Cairo 30 luglio 1882).Questa bellissima foto di Garibaldi (ovale cm 26 x 19,8  -  Foto 1) è conservata a Parigi - Biblioteca Nazionale, Gabinetto delle Stampe - e risulta firmata in basso a destra dall’artista. Il Le Gray si trovava sulla goletta del famoso scrittore Alessandro Dumas padre che si recava a Palermo per consegnare a Garibaldi alcune armi. Con l’occasione l’artista fotografo immortalò in una serie di foto le varie rovine di palazzi e chiese di Palermo, ancora fumanti dopo il feroce bombardamento dal mare delle navi Borboniche. Naturalmente il Dumas fece ritrarre dal suo amico fotografo questa immagine-ricordo del grande Eroe. Questo ritratto fotografico di Garibaldi ebbe immediatamente un successo tale che lo troviamo riprodotto su diversi oggetti artistici di cui ne do qui di seguito la descrizione:

2 – Questo primo oggetto chiaramente derivato dalla foto è una piccola stampa colorata (mm 40 x H mm 52 – camicia rossa – pantaloni azzurri  -  fondo avana) e in basso reca la firma autografa dell’Eroe. A cosa poteva servire questa piccola riproduzione della foto? E perché Garibaldi l’aveva autografata?  La risposta mi fu chiara quando, tempo dopo, acquistai il buono di “Soccorso a Garibaldi” della direzione del fondo con a capo il Dott. Agostino Bertani in Genova (2bis mm 25 x H mm45). Infatti confrontando le due immagini (anche se nel Buono è coperta dalla scritta la parte inferiore) si può confermare  che tutta la parte superiore è uguale alla stampa, quindi la firma autografa fu messa dall’Eroe per confermare il soggetto scelto per l’immagine da rappresentare per questi Buoni patriottici

3 – Spartito musicale “Garibaldi” riproduzione litografica della foto del Le Gray “Sinfonia  sopra l’inno dei Cacciatori delle Alpi dedicata all’Italia, composta da S. Mercadante  - Milano – Ricordi – Timbro a secco “T R 62/3” s,d, (ma 1860) pag, 41

4 – Medaglia 1860 /Sarti 25) metallo bianco diametro  mm 51 opus Caciada. Nel D. la figura di Garibaldi ripresa dalla foto sopra descritta. La medaglia è stata coniata alla fine della vittoriosa impresa di Garibaldi del 1860 di cui sono riportate le varie tappe vittoriose da Marsala a Napoli.

5 – Litografia a colori tratta dalla foto di Le Gray incisa dal Rossetti e colorata da Bignoli. Sotto timbro a secco “Luigi Ronchi” editore  - Milano  (carta avana chiara mm. 325 x H mm 472. Al centro ovale verticale (mm 132 x H mm 195)

6 – Quadro in legno con riproduzione intarsiata (marrone ed avana) con l’immagine di Garibaldi tratta dalla foto suddetta (mm 220 x mm 270)

7 – Fibia in metallo dorato per cinta con figura di Garibaldi (dalla foto suddetta) in rilievo mm 95   X H mm 65

8 – Bastone con manico in avorio con al figura di Garibaldi (mm 145) ripreso dalla foto di Le Gray ma con l’aggiunta di un grande fazzoletto sulle spalle.  La parte centrale del bastone è di legno pregiato ( mm 660 ), sia nella parte inferiore delle gambe che nel retro,  ed è terminante con un puntale in avorio (mm 110)

9 – Statuetta in schiuma su base tonda riproducente il Garibaldi del Le Gray  con l’aggiunta non solo della parte inferiore delle gambe ma anche di un cappello con nappina, ma mancante della catena con l’orologio (mm 110 x H mm 290)

10 – Questo bel ritratto di Garibaldi riappare dopo ben 72 anni  nell’ultimo valore (£5 + £1 colore rosso-bruno – 6 aprile 1932)  della serie ordinaria di francobolli commemorativi  del cinquantenario della morte di Garibaldi. Dato che in quel tempo l’Italia governava anche un certo numero di colonie africane  questa bella serie con colori cambiati  fu messa in circolazione (1 luglio 1932) con la scritta “Poste Coloniali Italiane” anziché “Poste Italiane”. Questo valore (sempre £5 + £1) fu stampato in azzurro.

Non mi resta ora che augurare ai miei cari lettori di scoprire qualche altro oggetto per poter dimostrare  (se ce ne fosse bisogno) che il soggetto era bello e fotogenico ma il fotografo era veramente ………… un arstista.

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STORIA E RICERCA DI UNA CURIOSITA’ RISORGIMENTALE

di Landro Mais     

Fra i tanti oggetti inerenti l’iconografia garibaldina (pitture, litografie, bronzetti ecc. ) molti anni fa ho avuto la fortuna di trovare un “pezzo” non solo curioso ma soprattutto misterioso.   

Si tratta di un bel ritratto a colori di Garibaldi in divisa da Generale piemontese del 1859 (Cacciatori delle Alpi). Il fatto “misterioso” ne è la dimensione: un piccolo tondo di appena 6 mm. La seconda cosa “curiosa” è data dalla riproduzione speculare, nel retro, dello stesso piccolo ritratto.

Ad un primo esame pensai subito si trattasse di una miniatura, ma il fatto che il ritratto risultasse anche nel rovescio  mi fece desistere da questa idea.  Rigirando sul palmo della mano questo piccolo oggetto  andavo poi cercando  di capire a cosa servisse: per una spilla? Per un anello? Per una catenina? Ma rimaneva sempre “misteriosa” la riproduzione nelle due parti; e poi si trattava veramente di una miniatura?  Nel guardare con più attenzione  il bordo del piccolo tondo  scoprii un fatto nuovo e curioso: l’ultimo bottone a destra in basso era situato esattamente nel bordo ed era costituito da un segmento che attraversava tutto lo spessore andando a costituire il bottone nel retro stesso. Questa prima scoperta  mi spinse a ricercare nello spessore le altri parti ove avveniva il cambiamento di colore. Da quel momento capii che non si trattava di una miniatura, ma di altro.   

A fare luce completa su questo oggetto misterioso fu un mio caro amico di Milano che sfogliando un catalogo di una mostra che si faceva a Venezia ne trovò la storia .  Si trattava di uno dei 4 tipi di ritratti di Garibaldi eseguiti in Venezia dalla fabbrica Franchini nel 1863 attraverso una nuova invenzione di lavorazione del vetro detta “Murrina”. Questa è costituita da un piccolo cilindro del diametro di mm 6 e della lunghezza di circa mm 50, costituito dall’ assemblaggio a caldo di filamenti in vetro colorato secondo un modello preparato precedentemente. Una volta raffreddato, il piccolo cilindro veniva tagliato in tanti piccoli dischetti, per cui il ritratto risultava speculare sui due lati.  

Se il mistero di questa nuova invenzione  (1863) era stato trovato rimaneva il mistero sempre più fitto del suo utilizzo. Che cosa era? E a che cosa serviva un doppio ritratto così piccolo dell’Eroe e per giunta in divisa sardo-piemontese del 1859, considerando che Venezia sarebbe diventata italiana dopo la guerra del 1866, e cioè 3 anni dopo?  A questo punto sono ricorso ai dati storici e al noto sistema usato dai patrioti quando si dovevano recare in un luogo ancora soggetto alla dominazione nemica. Fra i tanti espedienti inventati per essere riconosciuti senza bisogno di lettere credenziali, vi era quella di piccoli oggetti che attestassero il riconoscimento del patriota (l’oggetto era tanto piccolo che anche in caso di qualunque pericolo poteva essere ingoiato). A questo punto posso ancora una volta essere contento di aver svelato a tutti gli amici curiosi delle cose storiche del nostro Risorgimento un particolare fino ad oggi sconosciuto.

NOTA  Una serie completa di tutti i 4 tipi di questa rarissima murrina si trova esposta a Londra nel famoso British Museum   

 

 

   Riceviamo dal nostro Socio onorario Leandro Mais la notizia del ritrovamento di una medaglia d’argento che la città di Mantova dedicò nel 1910 (ovvero dopo 50 anni) ai superstiti dei Mille ancora viventi della città e provincia.

   E’ abbastanza nota a tutti la storia che riguarda l’assegnazione nel 1860 della famosa medaglia che Palermo volle donare a tutti i Mille (1089), mentre invece è meno nota la medaglia d’argento che sempre nel 1860 il piccolo comune di Iseo (e provincia) donò ai soli 16 garibaldini dei Mille; quest’ultima, naturalmente in proporzione, è molto più rara di quella di Palermo.

   Per quanto riguarda invece questa di Mantova  (e provincia) il  Sig. Mais ci conferma che consultando l’elenco dei Mille  della zona di Mantova (naturalmente viventi al 1910) il numero dei garibaldini dei Mille che la ebbero dovrebbe essere solamente di sei.

   Altra notizia che confermerebbe l’estrema rarità di questa medaglia si può dedurre da queste ulteriori notizie:

1°   la suddetta non risulta pubblicata in nessun catalogo delle medaglie di Garibaldi (come nel “Sarti” del 1933 ecc,)

2°  nel lungo periodo di oltre 50 anni il Mais stesso dichiara di non averne mai avuta notizia, né nella stampa specializzata, né nei moltissimi convegni numismatici da lui frequentati.

   Il nostro amico sarebbe particolarmente grato a tutti coloro che potessero fornirgli qualche notizia in merito

Medaglia AG 1910 opus Donzelli diametro mm 30

              Dopo anni di incontri, trattative, progetti per la creazione a Roma di un Museo dedicato a Giuseppe Garibaldi, comprendente la storia e la rappresentazione popolare e mitica del grande condottiero italiano,  che la nostra Associazione ha tentato di portare a compimento, mediando  tra il desiderio del collezionista e ricercatore storico Leandro Mais di donare al Comune  l’intero materiale in suo possesso - raccolto in 50 anni di acquisizioni e ricerche –  e l’Amministrazione Capitolina (Assessorato alla Crescita Culturale e  Sovrintendenza ai Beni Culturali), dobbiamo purtroppo constatare il fallimento dell’ “ardita” operazione.

             Come accennato nella lettera inviata ai Dirigenti dei citati organi amministrativi di Roma Capitale, che qui riportiamo integralmente,  ci impegneremo ancora nella ricerca di possibili soluzioni con Istituzioni pubbliche od Enti privati interessati ad accogliere, con sufficiente elasticità, le garanzie richieste dal donatore per la conservazione nel tempo dell’intera collezione.

IL TESTO DELLA LETTERA INVIATA IN DATA 02/05/2018

                   All’Assessore alla crescita culturale di Roma Capitale

               Dott. Luca Bergamo

               Piazza Campitelli, 7 – Roma

 

                Al Sovraintendente ai Beni Culturali di Roma Capitale

                Dott. Claudio Parisi Presicce

                Piazza Lovatelli, 35 – Roma

            Egregio Dott. Bergamo, apprendiamo con grande dispiacere la notizia del mancato accordo tra il Comune di Roma – da Lei rappresentato in qualità di Assessore alla Crescita culturale e Vicesindaco, sottoscritto dal Sovrintendente alla Cultura Dott. Claudio Parisi Presicce (lettera del 13 Dicembre 2017, prot. 46315) – e il Signor Leandro Mais, in merito alla donazione dell’intera collezione garibaldina che quest’ultimo aveva proposto all’Amministrazione Capitolina per nostro tramite.

             Dopo aver atteso per quasi tre anni (la prima proposta è del 30 marzo 2015) l’esito di un possibile accordo tra le parti, rinviato prima a causa della caduta della Giunta Marino, poi per il commissariamento del Comune di Roma, vediamo ora svanire il progetto per la realizzazione nella Capitale d’Italia di un “Museo Garibaldi” posto all’interno dell’edificio denominato “Arco dei Quattro Venti” (Villa Pamphili), storicamente legato alla figura dell’Eroe che qui ha combattuto alla testa dei suoi Legionari durante l’assedio di Roma del 1849. Museo unico nel suo genere, che avrebbe completato e arricchito la memoria storica dell’intero periodo risorgimentale (oggi  rappresentato solo per gli anni 1848-’49 all’interno del Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina), e trasmesso alle giovani generazioni un segnale di ripresa culturale, in opposizione al costante declino di valori legati alla nascita della Patria comune, reso ancor più evidente a partire dal 2008 dall’esclusione dello studio del Risorgimento dalla Scuola Primaria.

             A nulla sono valsi i nostri sforzi per facilitare il compito dell’Amministrazione Capitolina attraverso una proposta progettuale che includesse anche la ricerca di sponsor per la ristrutturazione dell’edificio, attualmente fatiscente e pericolante. La decisione, di cui lamentiamo l’assenza di uno spazio di trattativa, seppur minimo, per un possibile compromesso tra le posizioni indicate dal donatore Sig. Leandro Mais e l’Amministrazione da Lei rappresentata, priva il Patrimonio Capitolino, la cittadinanza romana e nazionale di un bene di primaria importanza.

             Consapevoli del valore culturale della raccolta, sia sotto il profilo storico che popolare, ci impegneremo ancora nella ricerca di possibili soluzioni con Istituzioni pubbliche od Enti privati interessati ad accogliere, con sufficiente elasticità, le garanzie richieste dal donatore per la conservazione nel tempo dell’intera collezione.

  A nome e per conto dell’Associazione Garibaldini per l’Italia La saluto cordialmente

Arch. Paolo Macoratti

Presidente